Vecchia politica e nuovi assetti sociali

Vecchia politica e nuovi assetti sociali
Il superamento delle classi sociali, dei partiti, della democrazia che conosciamo

Vecchia politica e nuovi assetti sociali

Il superamento delle classi sociali, dei partiti, della democrazia che conosciamo

 Grazie alla scuola e, in particolare, alla licealizzazione di massa, le classi sociali tradizionali sono scomparse, in Italia come negli altri Paesi occidentali. Da noi il processo è stato più radicale che altrove perché la scuola statale ha mantenuto una netta egemonia sul piano didattico e formativo, relegando la scuola privata a un ruolo subalterno e marginale; in altre parole: le scuole di classe non hanno attecchito, piuttosto che elitarie anche le più blasonate sono state rifugio per minus habentes.


Nei nostri licei (e negli istituti secondari assimilabili) si sono mischiati giovani provenienti dalle più disparate condizioni sociali ed economiche e, generazione dopo generazione, le differenze di abitudini, di retroterra culturale, di abbigliamento, di linguaggio si sono progressivamente affievolite fino a sparire del tutto. Lo status e il patrimonio sono stati restituiti ad una dimensione casuale e individuale e non più percepiti come un’etichetta sociale. Insomma: abbiamo formato un’Italia culturalmente e quindi socialmente omogenea, in cui il sistema delle relazioni interpersonali non è più predeterminato ma si costituisce sulla base di libere scelte. Il potere reale, che in una società avanzata è riposto nella conoscenza, si è distribuito in modo normale  e con questa realtà deve fare i conti anche la politica.

Questo è semplicemente un fatto. L’abbattimento degli steccati di classe, la dissoluzione del concetto stesso di classe, non l’hanno realizzato i partiti di ispirazione marxista; il socialismo o i sindacati non hanno portato contributo alcuno al conseguimento di questo traguardo. Quegli steccati sono stati abbattuti dalla omogeneizzazione culturale, le classi si sono dissolte nel momento in cui si è percepita l’intercambiabilità e la casualità degli status. La professione docente ne è la rappresentazione paradigmatica: in un collegio di insegnanti si trovano la moglie di un notaio, la sorella di un primario ospedaliero, la figlia di un operaio e niente li fa percepire come espressione di ceti sociali differenti: agli occhi degli studenti e in per il mondo esterno sono tutti insegnanti, punto.


Intendiamoci: constatare questo, che, ripeto, è un fatto, non implica alcuna valutazione della scuola e della qualità del corpo docente. Per una serie di cause che rimandano alla politica, all’organizzazione accademica, alle turbolenze successive al ’68, la scuola italiana si trova impantanata in una crisi di cui non si vede soluzione e che richiederebbe ben altra guida al ministero della pubblica istruzione. Ma non è questo il punto; fermo restando l’augurio di tempi migliori, l’istituzione ha comunque realizzato il suo compito e tanto basta per riconoscere al docente una centralità che è nelle cose ma che il sistema consolidato in troppi decenni di malgoverno si è sforzato di negargli privilegiando funzioni più organiche alla propria struttura interna (e alla propria salvaguardia).

Escludo che  si possa ricomporre una articolazione in classi basata sul privilegio. Il privilegio, infatti,  crea gruppi arroccati  nella difesa dei privilegi acquisiti, non nuove classi sociali. Per il suo carattere artificiale, antistorico, disfunzionale, arbitrario,  produce un’iniquità sociale assai più pericolosa e tossica dei conflitti di classe. Per rimanere nell’ambito della scuola: non dico l’utilità, che è un parametro soggettivo, ma l’incidenza sociale del docente, il suo peso reale, è incomparabilmente superiore rispetto a quella del giudice o del militare. I reati non sono la regola e non è sui reati che si fonda lo Stato (semmai in uno Stato ideale non ci sono né reati, né giudici né carceri e, quanto ai militari è banale riconoscere che bandita la guerra l’esercito non serve a nulla); l’educazione, la trasmissione del sapere, la continuità culturale sono invece essenziali, garantiscono la sopravvivenza della società e dello Stato. Certo, visto che i reati ci sono e che un esercito ce l’hanno tutti, è necessario che ci siano giudici e militari e che venga loro riconosciuto uno status adeguato. Ma  è semplicemente grottesco  ed è una cosa da terzo mondo che un giudice o un ufficiale dell’esercito vengano pagati più di un professore determinando uno scarto ingiustificato fra ruolo (l’importanza sociale) e status (il riconoscimento sociale). Con un po’ di cinismo arrivo a riconoscere che finché è perdurata la stratificazione sociale e culturale, finché gli strumenti di comunicazione, di informazione, di comprensione della realtà erano in mano ad una minoranza e la base della società era costituita da una massa senza voce inchiodata alla terra o chiusa nelle fabbriche, la funzione sociale del maestro era poco più che ornamentale. Al di là di sapere o non sapere scrivere una lettera il 90% della popolazione era culturalmente analfabeta e la scuola non poteva fare altro che ribadire nella loro condizione realtà sociali destinate a permanere nella medesima condizione. Al massimo poteva cercare di inculcare, come aveva sempre fatto la chiesa, l’obbedienza e l’accettazione o indirizzare i giovani delle classi umili verso mestieri umili applicando qualcosa di simile ai decreti di Diocleziano: chi è contadino rimanga tale per tutte le generazioni e così chi è scalpellino o fabbroferraio o stalliere. Quanto ai borghesi, in una società statica e conservatrice l’istruzione serve a poco, quel tanto che garantisca le buone maniere, la capacità di reggere una conversazione e un po’ di sterile nozionismo.

Ora è tutto diverso. Dinamismo, conoscenze in evoluzione, non nel senso ingenuo e un po’ rozzo del progresso caro ai positivisti ma in quello kantiano della liberazione, della luce, della comprensione, che non conosce barriere di classe e risponde solo ai criteri dell’intelligenza, determinano la centralità e il primato della formazione. 

L’analisi marxiana della società non serve più a molto. Le classi dominanti detentrici del capitale non esistono. Ci sono singoli individui, famiglie, organizzazioni, gruppi di potere, lobby, non classi sociali. Prendiamo la composizione socio-economica dei ricchi nel nostro Paese. Probabilmente hanno in comune la circostanza che gravano come un macigno sulle tasche dell’italiano medio ma non sono una classe sociale, sono un’accozzaglia di condizioni diverse fra di loro; molti di loro hanno in comune anche la volgarità, l’ignoranza, la scarsa dimestichezza con la lingua, come il borioso direttore o ex direttore di giornaloni che, ignaro di dover retrarre l’accento, non èleva ma elèva (sentito proprio ora mentre scrivo con un orecchio alla tv).

Ovviamente il fatto che non ci sia più traccia delle vecchie classi sociali non significa che non ci sia più ineguaglianza. Al contrario: mai come in questo periodo storico le disuguaglianze sono state tanto accentuate e la distanza fra la minoranza – cospicua e variegata – dei ricchi e la maggioranza – sostanzialmente omogenea – dei poveri è stata così grande.  Ma è una disuguaglianza assolutamente disfunzionale, priva di una sua interna razionalità oltre che di una giustificazione economica, che però è in grado di fare sistema. È come se una banda di malfattori si fossero impadroniti del bottino, il patrimonio del Paese, e se lo fossero spartito in parti disuguali, lasciando a quelli ai quali sono toccati gli spiccioli – si fa per dire – il compito di costruire il recinto del privilegio e di difenderlo dagli attacchi esterni. Dirigenti pubblici, politici di professione, funzionari, alti ufficiali svolgono diligentemente questo incarico opponendo una resistenza passiva a qualsiasi tentativo di cambiamento. Dietro di loro, detentori di privilegi più consistenti e con una funzione attiva di cani da guardia sono posizionati i grandi giornalisti, gli alti papaveri dello spettacolo, dello sport, della cultura (?), subito a ridosso dei grands commisdi Stato e di quel gruppo di famiglie che ha il monopolio delle posizioni apicali degli enti pubblici e del sistema bancario. Torna alla mente il sistema feudale di vassalli, valvassori, valvassini e cavalieri il cui vertice rarefatto al posto dell’imperatore è la finanza globalizzata di rito massonico e vaticanista. Il sistema è organizzato su base nazionale ma a mano a mano che si sale di livello risulta evidente che è parte di una rete mondiale strettamente interconnessa che ne spiega la pericolosità per gli interessi nazionali, il sostegno ai movimenti no borders, l’ostilità dichiarata nei confronti della sovranità nazionale, la relazione con le Ong e l’incoraggiamento dei flussi migratori.

Le classi sociali tradizionali sono essenzialmente definite in rapporto con la produzione e la generazione della ricchezza. Che si tratti di forza-lavoro, di lavoratori in proprio, di fornitori di servizi, di datori di lavoro, tutti sono parte di un circuito economico, in posizioni egemoniche o subordinate ma comunque attive. Nell’ottica marxiana, e in tutte le declinazioni del marxismo, la ricchezza è comunque frutto del lavoro e continua a creare lavoro, sia pure lavoro alienato o sfruttamento. Capitalismo e grande borghesia coincidono. 

Nel sistema attuale senza classi ma con gruppi di potere non è più così: la ricchezza è sganciata dal ciclo produttivo, è una variabile indipendente, elargita o auto elargita da un potere politico a sua volta al servizio del capitale finanziario, di un’economia soft, virtuale e globalizzata. Detto in soldoni: l’industriale con un fatturato milionario e detentore di un cospicuo patrimonio personale dà lavoro a centinaia o migliaia di persone che a loro volta producono beni e ricchezza e le paga secondo  le leggi del mercato; il presidente di un grande ente di Stato o l’amministratore delegato di un grande gruppo bancario sono a tutti gli effetti degli stipendiati che decidono da sé il proprio stipendio secondo parametri completamente arbitrari: il loro patrimonio, senza rischio alcuno, levita anno dopo anno e supera di gran lunga quello di un imprenditore di medio o anche alto livello. Ma si tratta di un patrimonio sterile, inerte, parassitario,  che non produce né beni né posti di lavoro, destinato al più ad alimentare un mercato finanziario avulso dalla realtà imprenditoriale nazionale, assolutamente improduttivo. Gli stessi fornitori di servizi interni a quel sistema percepiscono emolumenti indipendenti dal mercato o dalle dinamiche contrattuali: se è vero, ed è vero, che le funzioni che svolgono possono essere affidate con le stesse competenze  a soggetti  pagati dieci volte di meno, si può tranquillamente concludere che si tratta di parassiti e predatori del denaro pubblico. Il padrone di un’azienda si può permettere di pagare il figlio più di quanto pagherebbe un dipendente con le stesse mansioni: l’azienda è sua ed è lui a rimetterci se non l’amministra in modo oculato. Ma uno Stato che funziona così è ostaggio di qualcuno che pensa di esserne il padrone. 


Il caso più clamoroso è quello dei parlamentari e degli ex parlamentari. Parlando dei primi, non mi perito a dichiarare che l’utilità sociale della maggioranza di loro è pari a zero. Sono solo numeri, potrebbero essere sostituiti da voti elettorali. Il peone che si affanna a dimostrare la sua esistenza in vita al suo collegio elettorale può anche intasare  gli uffici di presidenza con una proposta di legge al giorno: è solo zavorra; la maggior parte dei suoi colleghi, giustamente, non si prendono questa briga e, i più corretti, si limitano a presenziare diligentemente alle sedute di camera e senato. Eppure ciascuno di loro ha diritto a un portaborse, a spendere in viaggi e telefonate più di un capo di Stato e ad una retribuzione netta otto volte superiore rispetto allo stipendio medio. Una cosa sconcia, che non ha riscontro in nessun altro Paese. 

Quanto ai secondi, gli ex parlamentari, l’idea che quello del parlamentare fosse un mestiere con diritto a un trattamento pensionistico (comunque venga chiamato) poteva venire solo alla parte peggiore della politica, quella che intende l’attività politica come l’assalto alla diligenza.

Il sistema è un vampiro che succhia le risorse del Paese, un’enorme zecca che gli si è appiccicata addosso e lo dissangua. Televisioni pubbliche e private, che ne sono il megafono, attraverso i talk show e i telegiornali lanciano quotidianamente l’allarme sui conti pubblici, sull’isolamento dell’Italia, le sanzioni dell’UE e il baratro al quale ci staremmo avvicinando. Lo stesso baratro evocato un settennio fa da eurocrati e sinistra per far fuori Berlusconi e che ora lo stesso Berlusconi e i suoi servitori evocano contro il governo gialloverde. Ora come allora, anzi, ora più di allora, in tanti sentono vacillare le proprie poltrone, i propri strapuntini e soprattutto le proprie prebende. Fa un certo effetto sentire compagni di piazza e di salotto, forzisti, e vecchi  missini vociare all’unisono o leggere gli stessi titoli su Repubblica e il Giornale e vedere la stessa preoccupazione nei volti della Palombelli, della Gruber, della Berlinguer. Ma è proprio questa  unanimità che smaschera i pasdaran del sistema, che ne mette allo scoperto l’inconsistenza degli argomenti, l’ostilità pregiudiziale e soprattutto la paura. 


Si capisce allora perché i partiti tradizionali non hanno più senso; non ha più senso la lotta di classe, non ha più senso la contrapposizione destra-sinistra, progressisti-conservatori; le lotte operaie, i moti nelle campagne, la fabbrica appartengono al passato, sono archeologia. E, cambiando i partiti, cambia anche la democrazia e la dialettica parlamentare. Quella che stiamo attraversando è una fase di transizione verso una nuova forma di democrazia, più simile ai modelli dell’antica Grecia e di Roma. Una fase di transizione nella quale si scontrano la volontà popolare, espressa da una società omogenea nella sua disomogeneità, e il sistema dei gruppi, delle lobby, dei singoli individui che si sono impadroniti dello Stato per assicurarsi una posizione di privilegio neofeudale. Abbattuto quel sistema la politica potrà tornare ad essere l’arte, o la scienza, dell’amministrazione del bene comune, impegnata intorno a temi reali come l’ambiente, il decoro urbano, le scelte strategiche in ambito economico, scientifico, tecnologico, con posizioni fluide, contrasti anche aspri ma su scelte concrete non per partigianeria, differenze di vedute, di valori, di atteggiamenti disposte a confrontarsi, a scontrarsi, ad accordarsi.

Il dottor Pangloss, constatato che le classi sociali non esistono più, che, di conseguenza, i conflitti sociali interni alla società civile non hanno più ragion d’essere, pensa che tutti i partiti, in quanto rappresentano e tutelano gli interessi dei gruppi sociali, si compattino nella difesa comune  degli interessi nazionali, sostengano il governo quando viene attaccato dall’esterno, accantonino i loro dissidi quando il Paese è in guerra. Ma il dottor Pangloss vive nel migliore dei mondi possibili e questo non è il migliore dei mondi possibili. In questo mondo imperfetto e a volte incomprensibile càpita che un partito che si è dato il nome di Forza Italia faccia il tifo per i nemici dell’Italia, si auguri che il governo cada sommerso dalla valanga dello spread e dalla frana finanziaria del Paese, càpita che il partito erede delle lotte degli operai e dei contadini dopo aver sostenuto per decenni la necessità di sostenere i giovani, i  disoccupati, gli emarginati  implori  gli eurocrati di Bruxelles perché impedisca all’Italia di dotarsi di uno strumento di tutela sociale di cui tutti i Paesi europei dispongono e grida all’assistenzialismo con un livore pari a quello di un reazionario con tanto di codino dell’ancien régime.

Esultano se sbarcano eritrei e tunisini e c’è il fondato sospetto che una vocina dall’ Italia abbia ordinato agli scafisti di mollare gli ormeggi e riprendere la rotta verso le nostre coste, tanto per far vedere che Salvini  è una tigre di carta o, se vogliamo, un cane da pagliaio. E così, mentre in America, coi suoi 300 milioni di abitanti, per impedire l’accesso a 500 latini Trump schiera l’esercito con l’ordine di sparare, senza che i dem rifiatino, da noi zitti zitti ne sono entrati 450 e le opposizioni si fregano le mani. È vero che Salvini non ne esce bene ma non si illudano i compagni (coi loro complici forzisti) di beneficiarne: semmai preparano il terreno a qualcuno che farà sembrare Salvini una mammoletta. Gli italiani possono esultare per i successi contro le mafie, ringraziano se la lotta alla corruzione ottiene qualche frutto; ma per  loro il vero problema è l’invasione e se il governo gialloverde e la Lega godono di un consenso crescente  è perché si pongano all’invasione e si liberino il Paese dai clandestini. Tutto il resto viene dopo, anche quota cento e il fantomatico reddito di cittadinanza. 

E questa è la prova di come sono cambiate la società e la politica. Checché sostengano i contorsionismi di compiacenti agenzie di sondaggi, c’è un’impressionante commune sentiresugli stranieri entrati illegalmente nel Paese. Lo snobismo dei privilegiati di destra e di sinistra vorrebbe confinare nelle periferie l’avversione per i clandestini e alternativamente la riconducono ad una lotta fra poveri (bella opinione dei nostri poveri!) o a un razzismo strisciante che sta attecchendo fra miserabili incattiviti dalla miseria e dall’ignoranza. Ovviamente se c’è del razzismo è proprio fra di loro, fra i guru della sinistra, fra gli opinionisti, i conduttori e le conduttrici televisivi, all’interno di quel sistema che è il cancro che mina il nostro Paese. In realtà sull’invasione e sulla minaccia rappresentata da centinaia di migliaia di irregolari, di richiedenti asilo, di destinatari di decreti di espulsione mai eseguiti, di beneficiari di permessi umanitari, tutti gli italiani si trovano d’accordo, anche quelli che per convenienza o fedeltà al partito fanno pubblica professione di buonismo. E anche ammesso che si riesca davvero a sigillare le coste e i valichi di frontiera, col tempo l’avversione per quelli che sono qui, che ha finora alimentato il consenso per la Lega e per Salvini, è destinata a crescere, tanto più che a mano a mano che si radicano sul territorio e rafforzano le loro reti gli invasori acquistano sicurezza e diventano più aggressivi. E non vorrei che la faccia bonaria di Salvini dovesse cedere il passo a qualcuno capace di interpretare le paure e la rabbia degli italiani con una carica emotiva tale da far esplodere le istituzioni, i vincoli europei e gli stessi limiti imposti dal sentimento della comune umanità. Già ora sono in tanti, troppi, a mormorare che senza un uomo forte i problemi del Paese, e pensano prima di tutto all’invasione, non si risolvono. Non è un bel segno.

  Pier Franco Lisorini

    Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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