U.N.P. 3
U.N.P. 3 “MISSIONE SU REGIS III” |
U.N.P. 3 “MISSIONE SU REGIS III” |
L’astronave di seconda classe “Invincibile” penetrò nel sistema del vetusto sole rosso e iniziò le manovre per rallentare e avvicinarsi al suo terzo pianeta. L’equipaggio, composto da ottantatre uomini suddivisi più o meno equamente tra scienziati e marinai, giaceva profondamente addormentato, in semi-ibernazione nelle apposite celle. Mentre la nave riprendeva la piena attività e svolgeva le procedure automatiche preliminari d’atterraggio, il personale di bordo iniziò a svegliarsi. Poco alla volta ognuno prese il proprio posto di servizio. |
Il pianeta, avvolto da dense nubi arancioni, attraverso gli schermi appariva sempre più vicino. Dapprima fu un immenso oceano a campeggiare, imponente, su ogni dove. Presto ai bordi della distesa acquea cominciò a delinearsi la costa frastagliata di una vasta massa continentale, grigia e brulla, costellata da crateri d’impatto. Quindi anche i più esigui particolari iniziarono a risaltare. Infine l’astronave atterrò in una regione desertica e sabbiosa, dal predominante colorito rossastro, appartenente al principale continente del pianeta “Regis III” nella costellazione della Lyra. In plancia, il capitano astrogatore indicò il panorama desolato al suo smunto ufficiale di rotta e gli espose la missione. Sul ponte, il basso e solido savonese Ezio Torregiani, svegliatosi insieme a tutti gli altri membri dell’equipaggio, sentì l’altoparlante annunciare l’atterraggio e la decisione di assumere le procedure di sicurezza di terzo grado. Ne ignorava il significato, ma gli uomini attorno a lui ne furono scontenti. Molte lamentele si alzarono, infatti, dalle loro gole. Ezio Torregiani non ci stava capendo nulla. Finora aveva visto solo file e file di bare criogeniche, paratie metalliche e infrastrutture spartane. Ignorava dove si trovasse e chi fosse la gente che lo circondava. Poi notò una finestra tonda, andò ad ammirare il panorama e strabuzzò gli occhi, incapace di distogliere lo sguardo dall’incredibile immagine. Al di sotto si spalancava un paesaggio alieno visto dallo spazio. Doveva stare ancora dormendo, perché il suo posto non era certo a bordo di un astronave. Le navi spaziali appartengono alla fantascienza, quindi si doveva trovare in stato confusionale, giusto? Lui era Ezio Torregiani, viveva agli inizi del XXI secolo, aveva trentaquattro anni, era sposato con Daniela Rocca e aveva uno splendido bambino di quasi quattro anni. Nella tarda adolescenza si era dedicato al pugilato, sport continuato fino ai ventidue anni di età e i quindici incontri, di cui tredici vinti. Era laureato in geologia, ma dopo tre anni trascorsi a lavorare sottopagato in un noto studio professionale, aveva vinto un concorso pubblico e abbandonato il proprio campo di studi per la sicurezza dello stipendio. Ma tutto ciò non centrava nulla con quanto vedeva. Si sforzò di far mente locale. Cosa ricordava degli eventi precedenti al risveglio? La serata trascorsa a casa dei fratelli Aurelio e Matteo Delfino, dove si era divertito a giocare con una grande novità tecnologica creata da Aurelio; il rientro a casa accompagnato dall’altro ospite Moreno Piacenza; la camera da letto e… incubi. Perché la notte era stata costellata da tanti, troppi incubi spaventosi, uno più incredibile dell’altro. Prima mangiato da un’assurda casa vivente in un borgo dell’entroterra; poi scaraventato in un immaginifico Brasile nel bel mezzo di una guerra tra due eserciti di banditi, dove aveva dolorosamente assistito alla morte di Piacenza per poi rimanere a sua volta ucciso in uno scontro a fuoco; quindi intrappolato in una folle città statunitense, in cui qualsiasi oggetto d’uso quotidiano era a pagamento e dove si era letteralmente consumato fino a morire. E ora era a bordo di un vascello spaziale in orbita intorno a chissà quale planetaria stravaganza. Cosa poteva significare tutto ciò? Non vedeva legami tra un sogno e l’altro, a parte la costante presenza del suo amico Moreno Piacenza, che però fino a quel momento sull’astronave non si era visto. Per intanto giunse un uomo assai smunto ma dall’aria autorevole. Da quanto poté capire doveva essere ufficiale di rotta e secondo di bordo. Questi chiamò tre uomini, Jordan, Blanck e Kyser, per i rilevamenti esterni. Mentre due di loro cominciarono immediatamente a muoversi e a chiedere informazioni sul comportamento da assumere, il terzo sembrava assente. Poi però qualcuno da dietro le spalle diede un’energica ma amichevole botta sulla schiena di Ezio. “Allora, signor Kyser, cosa aspetta? Non ha sentito il primo ufficiale Rohan?” Solo allora Torregiani si rese conto di essere lui quel tal Kyser appena convocato. Seguì i tre senza obiezioni, rassegnato. Indossò l’auto respiratore, operazione svolta non senza difficoltà e scese a terra con gli altri, utilizzando un montacarichi esterno. Appena toccato il suolo si guardò intorno, ma vide solo grigie rocce affioranti nella sabbia rossastra e basse montagne brulle e inanimate, delle medesime tinte, perdersi in lontananza, mentre un denso pulviscolo danzava spinto dal vento. Quell’ambiente gli metteva tristezza. Non vi poteva essere nulla di vivo in un luogo simile. Non appena ebbero piazzato i loro macchinari, Rohan, il secondo di bordo, s’informò sull’entità dell’attività rilevata. Ezio ascoltava domande e risposte ma comprendeva poco. Per lui le affermazioni di Jordan, inginocchiato davanti al rilevatore, erano del tutto sibilline. “Qual è il suo rapporto, geologo capo?” Chiese infine Rohan, rivolgendosi a Ezio. Dunque si trovava lì nelle vesti di geologo capo! Che sciocco a non averci pensato. Un legame con la sua vita c’era, dopotutto. Forse stava sul serio sognando e la sua mente rielaborava fatti legati alla sua esperienza. In fin dei conti era sempre stato un accanito lettore di romanzi di fantascienza e non si perdeva mai le novità cinematografiche del genere. Ezio si guardò intorno e raccolse con la mano guantata una manciata di terra rossastra. “Questa sabbia è ferrosa, il colore rosso è dovuto alla presenza di ruggine. Vedo anche un’elevata percentuale di rocce vulcaniche, ma potrò essere più preciso solo dopo le analisi.” Commentò. “Tanto vale a questo punto risalire e farle subito, queste analisi.” Rispose Rohan. “Certo che qui sembra tutto desolato e morto.” “Davvero, appare molto desolato, ma qualche pericolo ci deve sovrastare perché da qui la Condor non è più tornata, Kyser, vecchio mio.”. Kyser-Torregiani non capì cosa avesse inteso dire. Risalì con gli altri a bordo della Invincibile e trovò l’alto e solido Moreno Piacenza ad attenderlo. Non ne fu sorpreso. Piacenza era un insegnante di matematica e scienze e un appassionato di immersioni, che trascorreva ogni anno due settimane di vacanze ai tropici per ammirare dal vivo la fauna delle barriere coralline. Sembrava indissolubilmente legato alla sua attività onirica. Mentre il capitano ordinava l’inserimento in orbita bassa di alcune sonde, fu l’amico a spiegargli il motivo della loro presenza su Regis III. L’astronave Invincibile era scesa alla ricerca della nave gemella “Condor”, misteriosamente scomparsa su quel pianeta. Nei giorni successivi l’equipaggio proseguì con studi e ricerche, incentrati dapprima sull’oceano e in seguito su quelli che parevano i resti di una città. Ezio e Moreno però s’interessavano il meno possibile alle varie attività. Entrambi erano ancora troppo scombussolati. Se fossero stati preda di un sogno non avrebbero dovuto essersi svegliati già da un pezzo? Si chiedevano piuttosto. E poi chi dei due stava sognando l’altro? No, non quadrava. Ma allora cosa gli stava capitando? Ezio volle interrogare in modo approfondito l’amico circa le sue precedenti esperienze. “Sì, esatto” – rispose Moreno – “Mi sono svegliato in una bara criogenica … ma sì, certo, ricordo bene la nostra serata dai Delfino… e poi ti ho accompagnato a casa, certo.” Insomma, i loro ricordi parevano collimare alla perfezione e non essere d’alcun aiuto. Eppure… “E dopo che mi hai lasciato sotto casa sei sicuro di essere tornato direttamente alla tua abitazione e di essertene andato a letto?” Insistette Ezio con pervicacia. “Assolutamente!” Asserì Moreno. “Così il mattino dopo ti sei risvegliato direttamente qui. Mm… e come è stato il tuo sonno?” “Costellato d’incubi, ti dirò. Pensa che sono stato addirittura assorbito da una casa vivente aliena e dopo essere morto ho sognato d’essermi risvegliato in Brasile, in mezzo a una banda di jacunços.” “Ehi, ma tutto questo l’ho sognato anch’io. Senti, non è che per caso dopo hai sognato anche di trovarti negli Stati Uniti, ma in una città del tutto improbabile?” E in effetti Moreno rammentava il suo sconclusionato ridestarsi in un posto insensato e di essere potuto uscire all’aperto solo dopo l’introduzione d’una moneta nel meccanismo d’ingresso. Ezio e Moreno passavano insieme da un incubo all’altro e dunque la spiegazione doveva essere legata a entrambi. In effetti la presenza del compagno pareva l’unico comune denominatore delle loro avventure, qualunque ne fosse la matrice. Anzi no, c’era un altro fattore, a ben pensarci. Ogni avventura si concludeva immancabilmente con la loro morte, dopodiché si ritrovavano intrappolati in un nuovo luogo incomprensibile. “E siccome l’ultimo nostro ricordo normale è la visita ai fratelli Delfino, la causa di quanto ci succede deve trovarsi lì, a mio parere.” Concluse Moreno. Sì, Ezio comprese subito che l’amico aveva ragione. Anche perché la loro non era stata una normale visita di cortesia. Aurelio Delfino, il maggiore dei fratelli, era uno scienziato e li aveva invitati per provare il frutto della ricerca condotta dall’azienda per cui lavorava. In qualche maniera quell’assurdo viaggio spaziale doveva essere legato all’esperienza vissuta a casa Delfino. Ezio e Moreno si guardarono negli occhi e un lampo d’intuizione passò tra di loro. Ora sapevano con esattezza cosa gli era successo: era colpa del progetto di Aurelio. Ignoravano però sia come fosse accaduto, non essendosi sul momento accorti di nulla, sia come uscirne. Per intanto dovevano però vedersela con un nuovo mondo ignoto. Al contrario della terraferma, gli oceani di Regis III brulicavano di vita ma, contro ogni logica, pareva che nessuna specie avesse mai tentato di avventurarsi al di fuori del mare. Le forme di vita del pianeta mostravano evidenti convergenze evolutive con quelle terrestri, però erano dotate di un senso in più, che permetteva loro di captare le variazioni d’intensità del campo magnetico. Tutte, indistintamente, dimostravano di aver paura delle sonde terrestri. Chiaramente qualcosa di simile alle sonde le terrorizzava e gli impediva di impiantarsi sulla massa continentale. Ma cosa? Infine la Condor venne individuata, abbandonata a trecento chilometri dalle rovine della strana città, con l’intero equipaggio perito. La sua corazza, solidissima e virtualmente inattaccabile, appariva perforata in più punti. A bordo tutto era stato danneggiato o perfino ridotto in briciole. Oggetti, vestiti e documenti erano stati fatti a pezzi come se da lì fossero passati degli ottusi vandali, anzi, per meglio dire, dei bambini incoscienti e vandali. Nonostante le riserve di cibo e acqua fossero intatte e in grado di garantire la sopravvivenza per anni, al termine delle autopsie gli astronauti risultarono quasi tutti morti di fame e di sete. Le eccezioni più vistose erano rappresentate da due cadaveri rimasti schiacciati nelle porte scorrevoli, come se fossero stati incapaci di adoperarle, e da uno congelato nel vano frigorifero. Il diario di bordo riportava pagine e pagine di dati poco significativi. Verso la fine il testo accennava però alla scoperta di esseri viventi, delle mosche, anche sulla terraferma e subito dopo si concludeva con una serie d’incomprensibili scarabocchi. Un giorno, infine, si verificò un grave e angoscioso incidente. Uno degli uomini, al lavoro dentro una caverna, perse all’improvviso le proprie facoltà mentali e non riconobbe più nessuno. La sua era ben più di una semplice amnesia. Non soltanto aveva perduto ogni ricordo del passato, ma anche la parola e la capacità di leggere e di scrivere. Si trattava insomma di una completa disintegrazione, un annientamento della personalità stessa. Erano sopravissuti unicamente gli istinti più primitivi: sapeva, ad esempio, mangiare, ma soltanto a patto di essere imboccato. Come finirono presto per comprendere, tutto avrebbe dovuto essergli nuovamente insegnato, come se fosse stato un neonato, ma la sua personalità era andata distrutta per sempre. Una volta completato il nuovo apprendimento sarebbe di fatto diventato un’altra persona. A quel punto Ezio e Moreno ne ebbero abbastanza. Non volevano conoscere la soluzione al mistero della Condor. Il pensiero di ridursi come quell’astronauta li sconvolgeva. E siccome la morte li aveva sempre liberati da ogni orrore vissuto, siappure solo per trasferirli in un altro, la soluzione gli parve evidente. Si consultarono a lungo, timorosi, ma infine presero la decisione. Qualsiasi novità gli fosse capitata in seguito, sarebbe stata comunque preferibile alla situazione attuale. A bordo della Invincibile c’era un arma micidiale, il mortaio antimateria: l’avrebbero usata su se stessi. In attesa di essere investito dal raggio d’azione del mortaio, Ezio rivolse gli ultimi pensieri alle due visite effettuate in casa dei fratelli Delfino e agli eventi verificatisi nel corso di quelle serate, senza dubbio responsabili della loro situazione. Poi l’annichilatore lo colpì, uccidendolo all’istante. Questo episodio è dedicato alla memoria di Franco Imparata, improvvisamente scomparso venerdì 14 ottobre all’ospedale San Paolo di Savona per cause non del tutto chiare all’età di 41 anni. Massimo Bianco
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