Un’ipotesi su etica del perdòno ed etica della legge alla luce dell’insegnamento socratico.
L‘idea di Socrate per cui non esiste il male ma soltanto l’ignoranza del bene, ha sempre provocato lunghe e appassionate discussioni.
Qui non si vuole sostenerla né confutarla.
Si vuole solo provare a prospettare cosa questa affermazione del grande pensatore ateniese potrebbe coerentemente comportare se fosse tradotta nella pratica della morale e nella pratica del diritto.
Per quanto riguarda la morale, tra le eventuali altre problematiche, ci pare verrebbe coinvolto il concetto di perdòno.
Se infatti quest’ultimo ha senso nel momento in cui si perdona qualcuno per qualche atto volontario che ci ha in qualche misura nuociuto, il suo senso viene meno allorché a tale atto, compiuto a causa dell’ignoranza, non si può più collegare nessuna colpa, e perciò neanche si può reagire comminando una pena.
A meno che non si pretenda di vedere l’ignoranza come qualcosa di voluto proprio per evitare di essere colpevoli. Una cosa che, semplificando molto e banalizzando, potremmo dire corrisponda al voltarsi dall’altra parte o al nascondere la testa sotto la sabbia, trovando magari aiuto nell’inconscio di Freud o più ancora nei meccanismi di difesa di sua figlia.
Il che tuttavia, anche ad una mente non particolarmente portata alla riflessione, risulterebbe ben presto un comportamento che poggia non realmente sull’ignoranza, ma anzi su una strategia così lucida da spingere a trovare un escamotage per cercare di evitare le proprie responsabilità, talché finirebbe per essere doppiamente colpevole: per la colpa e per la colpa di voler fingersi senza colpa.
Qui si sta trattando ovviamente non dell’ignoranza di tipo nozionistico, ma di quella relativa alla mancanza di empatia. Dell’ignoranza che impedisce la comprensione della sofferenza che il prossimo è costretto a subire in termini di violenza, menzogna, sopruso… Dell’ignoranza che interpone sempre una distanza di sicurezza tra carnefice e vittima per tutelare il carnefice.
Detto ciò, la questione è: si può accusare qualcuno ( della colpa ) di essere ignorante?
Purtroppo, ma con obiettività, sembrerebbe di no; con la conseguenza di accettare che il male subìto resti senza colpevole, perché chi l’ha commesso, a seguire Socrate, non capisce davvero cosa sta commettendo.
Anzi, a rigor di termini, nel caso il perdòno lo si volesse comunque concedere a chi non sente di avere nulla di cui farsi perdonare, c’è il rischio di andare incontro all’irrisione di sentirsi rispondere di fare pure, ma che altrimenti va benissimo lo stesso. Questo, si ribadisce, se il reo è ancora avvolto dalla cappa dell’ignoranza.
Se invece per qualche motivo gli si sono aperti gli occhi, allora potrebbe, sempre traendo le conseguenze della teoria socratica, dire che comunque non ha bisogno di perdòno, perché ha commesso quello che ha commesso non ora che ha capito tutto ma quando non aveva ancora capito niente.
Stessa cosa sul piano del diritto.
E’ lecito nell’ottica del diritto condannare chi per ignoranza non si rende conto di quello che fa ( il che non esclude il delitto premeditato in quanto premeditazione non significa consapevolezza )? Tutta la giurisprudenza dice di sì; ma non perché sia di per sé giusto.
Semplicemente perché una società che non potesse far leva sulla pena da comminare a un reo-non-colpevole, non potrebbe nella pratica sussistere.
Infatti, se davvero la legge volesse essere consequenziale all’idea che l’ignoranza esclude la colpa, e che la colpa esclude la pena, ci sarebbe subito chi commetterebbe, con la garanzia di non essere perseguibile, ogni tipo di reato, anche il più efferato.
L’etica, quando si trova a scontrarsi con la realtà della convivenza e governabilità sociale, è destinata, piaccia o meno, a diventare parentetica; cioè ad essere messa tra parentesi.