Una virtù costruita
Delle cosiddette virtù teologali, ve ne è una, la fede, che a differenza delle altre è artefatta e fatta ad arte.
Che sia così lo si può comprendere chiedendosi che cosa tali virtù siano.
La carità è amore fattivo verso gli altri, e nasce dalla compartecipazione emotiva. La speranza è uno sguardo positivo, più o meno profondo, sul futuro. La fede… La fede, appunto, non può essere definita di per sé, perché a guardar bene altro non è che una fiducia pietrificata, cioè prosciugata dal suo essere fluida, aperta all’altalena e al giudizio sugli eventi, soggetta ad allargarsi e restringersi come accade ad un fiume che conosce di volta in volta i vasti spazi delle pianure e le gole rocciose che lo strozzano e lo affaticano nel suo percorso.
Ma cosa fa della fiducia una fede? Fondamentalmente il timore.
Il timore che la speranza ( il confine tra fiducia e speranza è sottile, e talvolta nullo ) in un evento, una persona, un risultato, una notizia, un amore, un esito etc., possa ridimensionarsi, o addirittura svanire nel dubbio, nell’ansia, nella dissolvenza del traguardo.
Sclerotizzare la fiducia è il tentativo di non mettere in discussione il soddisfacente grado di speranza raggiunto ingessandolo nell’ossimoro di acquisirlo e trattarlo come fosse una certezza.
Ebbene, fino a che l’aver imboccato una strada che non ne prevede altre si limita ad essere una strategia del singolo, una di quelle che potremmo far rientrare nei meccanismi di difesa indagati da Anna Freud, ciò che di bene o di male ne ricava, è del tutto suo.
Però quando la trasformazione della fiducia da elemento fluido ad elemento solido, e anzi il più solido possibile, è indotta tramite varie tecniche e modalità da altri, allora sono questi altri ad averne la responsabilità. Soprattutto qualora il loro intervento sia stato invasivo e, nel peggiore di casi, coercitivo.
Se per il soggetto si è visto come sia il timore ( inteso anche come presa di coscienza della propria inadeguatezza ) che lo induce a trasformare la fiducia in fede, qual è la motivazione che altri hanno affinché una simile trasformazione si compia facendo sì che giunga dall’esterno a condizionare i singoli individui?
In modo alquanto generico, perché il discorso ad essere analitici si allargherebbe troppo, si può tuttavia dire che è il tentativo di creare uniformità, e che tale uniformità torna utile nella sfera politica e sociale, alla quale il soggetto medesimo spesso non si sottrae ed anzi alla quale a volte volentieri aderisce: l’idea di venire accomunato ad una collettività dà sicurezza e non richiede lo stesso impegno di chi deve o vuole procedere in autonomia.
Esemplificando, chiediamoci quanti tra i cristiani di oggi avrebbero serenamente mangiato carne il venerdì se fossero vissuti cent’anni fa…
Il numero ridimensiona l’entità del problema.
Crea il meccanismo psicologico per il quale sapere che l’errore ( o il peccato ) commesso anche da altri, artatamente permette di saltare dal piano ontologico, dove la questione e il suo oggetto restano quello che sono, a quello numerico, dove l’errore ( o il peccato ) condiviso con altri lo si intende suddiviso e perciò parcellizzato, e tanto più quanti più sono coloro i quali lo hanno commesso.
Non è dunque un caso se le strutture sociali che non possono dimostrare razionalmente i loro assunti, dalle piccole sétte alle grandi religioni, non vogliano fiducia ma fede. E nel corso della storia lo abbiano voluto tanto fino ad imporre la fede con violenze fisiche o morali che di essa sono in realtà la negazione. A un punto tale da essere anche la negazione di quella che avrebbe potuto essere una fiducia vera.