Una proposta di modifica grammaticale

Tutte le lingue hanno i loro pregi e i loro difetti. Nessuna è perfetta.
E tutte devono stare al passo coi tempi, modificandosi opportunamente; per cui la quantità di lemmi varia: certe parole scompaiono, altre nascono. Questo per il lessico; ed è una cosa risaputa.


Si è invece generalmente meno consapevoli che anche la grammatica subisce ed apporta delle modifiche. Lo fa con molta più parsimonia rispetto al lessico, perché si tratta di un’area della linguistica che per diversi fattori tende alla rigidità, ma lo fa.
Semmai bisognerebbe chiedersi se lo fa perché i grammatici o l’Accademia della Crusca decidono di farlo, o perché a mano a mano l’uso distorto o deviato agìto dai parlanti diventa così diffuso, che si impone. Le due modalità comunque non si elidono a vicenda.
In alcuni casi, i cambiamenti avvengono in modo “naturale”, dal “basso”, a seguito, per esempio, dell’universo comunicativo introdotto dalle nuove tecnologie; in altri dall’ “alto” (ne sono esempi  quello della Riforma Linguistica attuata dalla Francia nel 1990 e dalla Germania nel 1996); in altri ancora dall’interazione tra essi.
Ma nessuno vieta che l’iniziativa sia presa da un qualsiasi parlante, sebbene le probabilità di adesione siano in questo ultimo caso minimali, almeno fino a quando un qualche personaggio che abbia visibilità e successo nel mondo del giornalismo, della politica, della televisione ecc., non la metta in circolo.


Un componente della famiglia fino a qualche decennio fa lo si doveva indicare con  il termine di “familiare”, mentre adesso si tende a scrivere “famigliare”, col digramma “gl”, Ciò per dire che di immodificabile non c’è nulla, neanche la grammatica, che dovrebbe dettare le regole della comunicazione verbale, le quali, a loro volta, in quanto regole, dovrebbero essere precise e univoche, esenti da soggettivismi interpretativi.
Credo allora di poter azzardare, non senza una certa dose di ironica supponenza, una piccola idea di modifica che riguarda due congiunzioni, le più usate ed importanti. Quelle che pronunciamo così spesso in una giornata, che se anche volessimo non riusciremmo a tenerne il conto: la copulativa “e” e la disgiuntiva “o”.
Proprio una cosa minima, un piccolo “Uovo di Colombo” che non costa niente proporre.
Si tratterebbe di riformulare la troppo formale congiunzione “e/o” (che semanticamente starebbe a significare che tra due alternative è possibile l’una, l’altra o entrambe), propria del linguaggio giuridico-burocratico, con la congiunzione “eo”, la quale potrebbe trovar posto anche in una lettera informale ad un amico, e soprattutto risulterebbe opportuna in una poesia, sostituendo una “e/o” del tutto inconcepibile. E non solo per disabitudine e tradizione, ma perché rivelerebbe che dietro a quella formula c’è un ragionamento di bilanciamento e di calcolo che toglie immediatezza espressiva, e perciò sincerità, all’emozione del verso.

In realtà, infatti, in italiano la disgiunzione inclusiva non esiste se non sotto forma di perifrasi, e quindi risulta anche un po’ scomoda.
Se nel passaggio dal latino all’italiano non si fosse persa la differenziazione della “o” intesa come “aut” (oppure) e intesa come “vel” (o anche) non ci sarebbero problemi a capire i messaggi che prospettano un’alternativa. Siccome invece si è persa, si è persa contestualmente la certezza di una corretta decodifica di essi. Abbiamo una “o”, e dobbiamo solo sperare che il contesto riesca a indirizzarci per il meglio.

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A questo punto, si potrebbe però obiettare sulla disposizione delle due vocali, in quanto anziché “eo” potrebbero essere invertite diventando “oe”. Nulla osta. Ma per dare un criterio, ecco, con “eo” si segue quello alfabetico che è già bell’e pronto.
Oltre all’esiguo risparmio del segno grafico della barra, conosciuta meglio come slash dai frequentatori di tastiere, ci sarebbe poi l’altro vantaggio di essere esentati dal pronunciare, appunto, la parola “barra” quando si parla o, in particolare, quando si legge. Dico in particolare perché la barra non si accontenta, come gli altri segni di punteggiatura, di essere rispettata con una pausa più o meno lunga, o con un tono di voce ascendente o discendente (vedi rispettivamente il punto interrogativo ed esclamativo), ma vuole anche essere detta.
In altre parole se durante la lettura incontro una virgola, non dico “virgola”, ovviamente; mentre se incontro una barra devo dire “barra”, autocostringendomi a calare sul piano del contenuto quello della forma e producendo così l’utile stonatura atta a far intendere che ci si sta riferendo ad una situazione in cui si prospetta un’alternativa non esclusiva.
In genere tra i sinonimi quasi sovrapponibili nel significato, riesce a sopravvivere nel tempo eo [inizia la propaganda subliminale] a prevalere nell’utilizzo, quello più breve.
Esemplifichiamo con un binomio: “maniera e modo”. E’ statisticamente provato come si usi molto più il secondo dei due termini, e ciò in quanto esso fa risparmiare tre lettere (o, se si preferisce dirlo diversamente, una sillaba). Figuriamoci se si tratta di risparmiare nello scritto la slash, e nel parlato oppure nella lettura (soprattutto nella lettura!) il termine “barra”, cioè un’intera parola in più, oltretutto contaminata dalla presenza di due piani diversi…
Ora immaginiamo un invito galante con la proposta di una serata a cena barra cinema, e poi chiediamoci se possiamo davvero pronunciare in scioltezza frasi al riguardo con l’utilizzo di questo intrusivo trattino obliquo.
Non che in fase di “rodaggio” del termine, cioè nei primi tempi in cui se ne facesse uso, un “eo” suonerebbe molto meglio; anzi, forse essendo inconsueto, potrebbe anche far un po’ sorridere.
Però, fatto l’orecchio, sarebbe assimilabile per dignità ad una normalissima altra congiunzione come “nemmeno”, “pure”, “né”, “ossia”, “però” etc.
Dopodiché è anche vero che la proposta è avanzata così, in punta di penna, per una sorta di divertimento; e quindi non prescindendo affatto dalla evidenza che all’interno della grammatica italiana vi sono cose ben più importanti da modificare.
Tuttavia considerando che dal vocabolario era prevista fino a un secolo fa una congiunzione come “eziandio”, che non è quel che si dice un modello di adattabilità a tutti i registri, ecco che “eo”, al paragone, ha, mi pare, il suo bravo diritto di esistere.

FULVIO BALDOINO

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