Una democrazia piccola piccola
Non esistono altre forme di governo dei popoli che esulino dalle tre classiche: monarchia, oligarchia, democrazia, sui vantaggi comparati delle quali esiste la più antica diatriba, riportata nel III libro delle Storie di Erodoto. È una discussione a tre, dove si fronteggiano Dario III, il “Gran Re” dei Persiani, che caldeggia la monarchia, e due sostenitori delle altre due forme: Otane per la democrazia e Megabizo per l’oligarchia. Prevalse l’opinione di Dario, a favore della monarchia.
Siamo verso la metà del VI secolo a. C., che mise le basi per il successivo fiorire della grande filosofia di Platone e Aristotele, nonché della mirabolante conquista di un impero di dimensioni mai viste prima da parte di Alessandro Magno. Il concetto di democrazia, perorato da Otane, aveva avuto modo di irrompere sullo scenario ellenico nel secolo successivo, che vide la nascita di tante poleis, con Atene in testa come maestra.
In realtà la democrazia si rivelò fugace come una meteora, in quanto la forma di governo che più si diffuse nei due millenni successivi fu l’oligarchia, anche se di fatto appariva come monarchia: nessun re può governare da solo e quindi, di fatto, si trova ad essere parte di un circolo ristretto di persone che influenzano le sue scelte e dividono con lui il potere (oggi lo chiameremmo “cerchio magico”). Il solitario monarca assoluto non esiste, poiché dovrebbe difendersi da un’infinità di pericoli e tranelli da parte di quanti lo contornano e si sentono esclusi dal comando.
Tuttavia, l’ideale di un governo dove siano gli stessi cittadini a guidare le scelte dei governanti ha trovato nei secoli schiere di adepti, dei quali si sono serviti quanti in realtà non avevano di mira altro che il potere personale, in stile monarchico, o più realisticamente oligarchico.
La storia recente fornisce patenti esempi in tal senso: gli anni ’20 del ‘900 hanno fornito tre esempi da manuale: la cricca di Hitler e i suoi gerarchi, Stalin e il Soviet supremo, Mussolini e il Gran Consiglio. Stalin si distinse da Hitler e Mussolini in quanto non era asceso al potere in prima persona come loro per rimettere ordine in due nazioni allo sbando per gli strascichi della Prima Guerra Mondiale, ma aveva ereditato l’ideale socialista da Lenin, come alternativa al potere dispotico degli zar. In altri termini, il socialismo si presentava non come il governo di pochi, secondo la classica formula di destra, ma come foriero di libertà, eguaglianza e solidarietà, col popolo formalmente al comando: una vera e compiuta democrazia.
In realtà, tutti i tre regimi erano totalitari; fascismo e nazismo dichiaratamente, il socialismo sotto mentite spoglie, fregiandosi dei più nobili ideali. Gli uni despoti dichiarati, l’altro despota dietro la maschera del nobile ideale socialista, poi erettosi a disumano comunismo.
Gli italici fautori dei regimi “democratici” satelliti dell’URSS, quale in pectore avrebbero voluto che divenisse anche l’Italia, si sono risvegliati dal loro bel sogno del “paradiso sovietico” solo quando quest’ultimo è caduto sotto il peso delle sue contraddizioni. E allora si illusero che il sogno democratico, svanito col crollo del muro di Berlino nel 1989, non potesse che trovarsi nelle sino a ieri odiate democrazie occidentali.
Fu un’adesione “cieca, pronta e assoluta”, come scherzosamente celiava Guareschi sulle pagine del suo “Candido” riferendosi al totale asservimento dei compagni “trinaricciuti” ai diktat di Mosca. Insomma, un cambio di paradigma talmente acritico che ricordava coloro che, abbandonati dalla fidanzata, si accoppiano con la prima che trovano, pur di non restare soli.
Col passare degli anni, mi stupivo al vedere i nuovi rampolli della sinistra, Occhetto, Berlinguer, D’Alema, Veltroni, Natta (e più avanti il rovesciamento totale della sinistra con Renzi), sostituire granitici compagni della prima ora, come Togliatti, Longo, Pajetta, Secchia, Ingrao (Napolitano è un caso a sé di trasformismo).
Tutti costoro continuarono tranquillamente ad incarnare, nelle parole ma non nei fatti, l’ideale democratico, tanto da usarlo anche per aggettivare ultimo partito, il PD. La metamorfosi del partito attraverso successive denominazioni l’aveva portato a diventare una stampella della finanza internazionale, battendo a tale riguardo persino la vecchia destra padronale, in particolare da quando Napolitano assurse alla carica di Presidente della Repubblica e agevolò una marcia a passi spediti verso il placet alla globalizzazione, ossia quanto di più lontano c’è dal concetto di persona, annullato nell’individualismo di massa, dove a ciascuno è data l’illusione di contare; ma, allargando a dismisura i confini, ciascuno conta per una sempre più piccola frazione di miliardesimi.
Di fronte ad un simile tradimento degli ideali democratici, una nuova formazione, il M5S, si assunse l’onere e l’onore di cavalcare la delusione popolare, sobillata dalle arringhe sulle pubbliche piazze del suo fondatore, Beppe Grillo. Il linguaggio da lui usato rappresentava una conversione ad U rispetto ai forbiti eloqui del politicamente corretto sino allora in uso, a sottolineare la distanza siderale dei suoi bellicosi programmi rivoluzionari dalla palude politica ed economica in cui il Paese stava affondando.
Finalmente, dopo oltre duemila anni, una democrazia reale sembrava a portata di mano, anche grazie all’avvento della tecnologia informatica, che consentiva consultazioni immediate del popolo prima di assumere decisioni importanti. Fu così che una legione di neo-rivoluzionari, eletti dalla diretta volontà popolare tramite una piattaforma digitale, in verità coinvolgente un’esigua porzione di popolo, portò tanta gioventù di belle speranze nelle aule parlamentari, mettendo in minoranza le stantie formazioni politiche viste come residuati di un passato da dimenticare.
Purtroppo, non ci volle molto a questa maggioranza per assorbire tutti i peccati dei parlamenti precedenti, in primis la tendenza all’inamovibilità, sacrificando ogni ideale ai benefici che diedero alla testa a tanti giovanotti e signorine, increduli quanto attoniti di fronte a tanto miracolo economico e prestigio personale.
Il salto più alto lo fece un certo Luigi (”Gigino”) Di Maio, campano, balzato al vertice del M5S e, a soli 32 anni, vice-premier e in seguito titolare di due ministeri di peso, come gli Esteri (Gigino capo della diplomazia!) e dello Sviluppo Economico (da pari a pari con i capitani d’industria), con il motto “Partecipa, scegli, cambia”. Una carriera, con un curriculum di venditore di bibite negli stadi, rinnegata come fake news da Gigino, tanto fulminante quanto immeritata, soprattutto se raffrontata con le motivazioni di voto che lo portarono alla Camera, via via modificate pro domo sua, seguendo la medesima strada di tanti eletti in altri partiti prima e assieme a lui.
Ho preso Di Maio come simbolo di un partito salito al potere per caso e contraddistinto da una parabola a brevissima gittata, immemore del programma in base a cui aveva ottenuto consensi quasi plebiscitari; insomma l’emblema di un tradimento degli elettori tale da far impallidire quello dei big democristiani e socialisti, messi alla barra dagli interrogatori di Mani Pulite. Con la differenza che quelli arrossivano di vergogna e imbarazzo, questi rimangono imperterriti dove sono, pur rendendosi conto di essere semplici strumenti nelle mani di coloro che avevano giurato di combattere.
Ora una frangia, pur sempre minoritaria, di cotanti alfieri della democrazia diretta, ha deciso, sulla scia di Di Battista, di scrollarsi di dosso la zavorra di un partito lontanissimo da quello immaginato dal suo fondatore, ma prematuramente deceduto: Gianroberto Casaleggio, di contro alla politica levantina di un Grillo, il cui camaleontismo opportunista rasenta la schizofrenia. L’unica, plausibile scusa alle sue infinite giravolte, sin da quando smise di denunciare il signoraggio bancario in anni remoti, sarebbe quella di dover operare sotto la cappa di un clima minatorio, che condiziona ogni sua scelta. E non sarebbe certo un caso isolato: i casi sospetti di dubbia libertà di comportamento da parte di uomini politici chiave, sono frequenti e contrari alla loro stessa logica. Ma qui si entra nel campo delle supposizioni, dalle quali vorrei tenermi lontano.
Il partito che mi sembra più coerente con le sue posizioni di base è Fratelli d’Italia, che, forse per il timore di dovervi rinunciare sotto le pressioni di altri partiti con cui dividere il governo, si è finora mantenuta all’opposizione, dove è più facile predicare la virtù. E sotto questo punto di vista può sembrare meno balzana la difesa della monarchia di Dario III, in quanto un partito solo al potere non sarebbe ovviamente democratico, ma non avrebbe scuse di fronte a scelte sbagliate o addirittura fallimentari. Giorgia Meloni predica, come tutti oggi, la tanto vagheggiata democrazia, ma sarebbe un esperimento interessante (anche se gli esperimenti in storia non sono concessi) vedere cosa farebbe un partito qualsiasi tra quelli esistenti, a cominciare proprio da FdI, ossia quello che più echeggia posizioni (famiglia, patria, confini, forti connotati identitari) del Ventennio, se mai arrivasse alla maggioranza assoluta.
Ho appena detto dell’impossibilità di fare esperimenti storici, tipo sapere come sarebbero andate le cose se “invece di” fosse successo un evento diverso. Sarebbe illuminante scoprire come si sarebbe evoluta la situazione sanitaria (ed economica) se, invece di terrorizzare intere popolazioni con una voce del padrone unica, costringendo all’inazione interi comparti produttivi della nazione, si fosse lasciata la più ampia libertà di movimento, limitandosi a rispettare determinate misure (distanziamento, precauzioni sanitarie), per poi confrontare i risultati negativi e quelli positivi nei due scenari. Probabilmente ci sarebbero stati più morti dichiarati per Coronavirus (ma quanti di questi sono realmente deceduti per il virus e non per (con)cause diverse?), ma meno morti per altre patologie trascurate a causa del virus, e meno problemi psicologici, suicidi ed altre disgrazie per l’impatto delle misure draconiane messe in atto dai governi Conte I e II, come pure dall’attuale, che sembra perpetuare le scelte di questi ultimi, incluse le promesse a vanvera di ristori, che, ammesso che arrivino, sarebbero ormai come cerotti su un arto amputato o, peggio, su un cadavere.
Un’Italia in balia del caos, con continue aperture e chiusure, decise di colpo e d’imperio come le sirene di un lontano tempo di guerra, s’è alla fine rivolta, quasi per motu proprio del suo Custode Supremo, a un salvatore pescato dalle file della finanza, ossia della nuova divinità che s’era sino allora impegnata a decretare alti e bassi a colpi di spread, ossia di un artificiale distacco di credibilità dalla Germania, che l’euro aveva portato da posizioni arretrate al sorpasso.
Un salvatore finora impegnato a mettere a punto restrizioni in stile Conte III, senza più che vaghi accenni agli aiuti che tanti settori moribondi o già morti aspettano da mesi. Con ciò allineandosi anche allo stile Mario Monti, che già all’epoca del suo effimero governo diceva che le crisi sono benvenute in quanto tolgono dalla circolazione le attività più in affanno; senza tenere in minimo conto quante cadono in quella condizione per il rispetto di regole che altri riescono ad eludere, in Italia o all’estero, facendo così concorrenza sleale, ma ammessa nel contesto globalista imperante; nel quale un sedicente regime democratico non offre ai suoi prodotti protezione alcuna da quelli provenienti da regimi dove della democrazia hanno solo sentito parlare.
Se democrazia significa uguaglianza, in Italia non esiste più, se non altro dall’avvento di un’epidemia che ha condannato una sua parte al fallimento economico, preservando l’altra.
Una democrazia sempre più piccola, insomma; fino a che punto lo vedremo presto.
Marco Giacinto Pellifroni 28 febbraio 2021