Un paese si racconta

Un paese si racconta
Ho avuto l’occasione di visitare l’esposizione di fotografie a Dego: “Un paese si racconta” e ne sono rimasto molto colpito.

Un paese si racconta  

Ho avuto l’occasione di visitare l’esposizione di fotografie a Dego: “Un paese si racconta” e ne sono rimasto molto colpito.

Il gruppo: “Le rive della Bormida”, che lo ha organizzato, è nato su Facebook, ma poi è riuscito a dare corpo fisico a tutta la passione e alla dedizione che i suoi componenti hanno dimostrato e così sono nate alcune belle rassegne fotografiche valbormidesi.

Le fotografie sono belle e suggestive. La maggior parte delle persone che visita la mostra lo fa per ritrovarsi, per ritrovare qualche ricordo della fanciullezza. Però le foto non possono essere “solo” questo, e così possiamo metterci di fronte a queste immagini così ben suddivise per ambito tematico (La scuola, il lavoro, il tempo libero…) con uno spirito critico tale da poter comprendere cosa ci separa da quelle persone e quei posti.


Non è passato poi molto tempo da quegli scatti, anche dai più antichi, che datano forse agli inizi del secolo passato. Un centinaio d’anni, nella scala della storia umana, sono poca cosa. Sono nulla rapportati alla storia della vita sulla Terra. Eppure par di scorgere in quei tratti, in quelle posture, in quei paesaggi, qualcosa di incredibilmente lontano, perduto.

Si è sentito spesso ripetere che quelli erano bei tempi, che la gente era più povera, ma più felice. Che la gente non sapeva nulla del mondo e della vita, era innocente, pura, semplice. E per questo più felice. Le cose si chiamavano con il loro nome, non c’era tecnologia (telefoni, televisioni, computer) e il lavoro coincideva con la vita, il mestiere e il nome della persona erano intercambiabili.

Chissà quanto c’è di vero in questo. Voglio dire: sicuramente nelle foto le persone avranno voluto dare di sé delle immagini positive, piacevoli, proprio per dire a chi li avrebbe guardati: eccomi qua, vedi come sto bene? Reggo il fiasco di vino, mangio, rido e canto con questo amico dotato di fisarmonica. Che vuoi di più dalla vita?

Allo stesso modo le fanciulle sono sempre ben pettinate e sorridenti, ricciolone folte, non più angustiate dalla fame atavica dell’anteguerra, finalmente mostrano un certo peso nelle carni, adeguato e muliebre, senza l’ombra di malizia. La camicetta nuova, la gonna appena stirata, il pettinino fra i crespi capelli, le gambe strette, ben pari, come si addice a una signorina per bene.

Si, quelle foto ci restituiscono una società ordinata, facile da capire, con ruoli e destini segnati, incorruttibili. Vite faticose e onorevoli.

Possiamo dunque immaginare che nelle foto ci sia soprattutto quel che di buono c’era da ricordare. Mentre le asprezze della vita, la condizione della donna, le malattie, la malnutrizione, la consanguineità, le condizioni di lavoro, di ignoranza, di violenza, vanno ricercate con tutt’altri stumenti.


Certo nelle foto si nota il passare dei tempi, le mode, i modelli. Per cui prima della guerra, la Seconda, oltre a una certa magrezza diffusa, c’era pure una sobrietà, una serietà negli atteggiamenti. Quasi tutte le foto paiono riprese in studio, o comunque ben “messi in posa” da un fotografo esperto. Già dalla fine degli anni Trenta si diventa più estemporanei, la fotografia scopre i gesti quotidiani, il lavoro, gli atteggiamenti non costruiti. Nel dopoguerra l’entusiasmo per una ritrovata libertà, per l’onda di speranza e di opportunità che attraversa il Paese si fa notare nei rinnovati sorrisi, nelle adunate in cui compaiono sempre fisarmoniche, chitarre e fiaschi di vino. E i giovani di allora, ad esempio in una festa di leva del 1950, che oggi ci paiono dei trentenni, scuri nel volto e uomini e donne fatti, dal lavoro, da una dieta leggera, che cominciava ad allargarsi.

Una foto era per sempre. Veniva scattata, riprodotta in poche copie e comprata dal soggetto, dai soggetti. Un fotografo aveva il suo lavoro, i soggetti avevano il loro souvenir, da mettere nel cassetto della biancheria, e mostrare, anni dopo, al nipotino, al lontano parente in visita, odorosa di spigo, o di naftalina.

Oggi fotografiamo tantissimo. Centinaia di scatti al giorno. Scegliamo i migliori e li condividiamo sui social. Il soggetto della foto è “Io”. Oppure quel che ho fatto: mangiato, corso in bici, preso il sole o presentato un libro. Il mondo è accessorio.

Mangiare cose buone insieme non è più memorabile. Per questo lo possiamo fotografare e dimenticare. Ma è bene che sia così: avere tanto da mangiare è comunque una cosa in assoluto positiva.

Sorridiamo nei selfie, e magari in realtà non siamo felici? Ebbene, lo facevano anche allora: in tutti i tempi l’uomo ha cercato di dare di sé un’immagine migliore, positiva, satolla (ove possibile) e di padroneggiare la situazione. Se negli anni Trenta o Quaranta avessero avuto la possibilità di farsi fotografie come noi oggi, e di condividerle, forse avrebbero fatto lo stesso. Fingendo opportunamente di essere felici e soddisfatti.

 

Ma allora, cosa è cambiato da quel tempo?

Io credo sia cambiata la memoria. Avere una sola foto di un certo gruppo di amici, e averla in un cassetto, non sempre davanti agli occhi come “screensaver”, la rende preziosa. Di più la mente di quelle persone era abituata a collegare a quella foto aromi, colori, parole, litigi, sapori, vini, emozioni, in un reticolo analogico, una vera e propria rete senza schema, in cui, proprio come una rete, finivano altri ricordi ed emozioni, da poter ripescare, contaminare e riutilizzare per comprendere il mondo che avevano intorno.

Avere 10.000 foto salvate in una cartella, ben distinte e catalogate, facili da trovare, a cui demandare tutto quel che c’è da ricordare a proposito di quell’evento, finisce per negare ed erodere spazio alla memoria umana, che non è fatta di cartelle o di qualsivoglia contenitore, ma di relazioni, di intrecci, di blocchi dai contorni indefiniti. Questo metodo di salvataggio porta sovente a errori, ma ci aiuta a salvare molte informazioni sotto forma di un magma, un minestrone, in cui, aiutati da un evento, un profumo, un viso noto, riusciamo a rimettere (inaspettatamente) ordine, pescando quello che ci serve in quel momento.

Le vecchie foto ci suggeriscono quindi qualcosa di ancora più importante che non il soggetto ripreso. Ci raccomandano di usare la memoria, la nostra fallace memoria umana, di non demandarla ad alcuno strumento (per quanto comodo). La nostra vita non è fatta solo di immagini, ma di parole, suoni, odori, emozioni. Viviamo in un mondo sempre più complicato, la memoria ci è sempre più indispensabile.   

Alessandro Marenco

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