Un filosofo da operetta

Leopardi. E subito si pensa al grande poeta.
In realtà Leopardi è stato anche filosofo e prosatore.
Il meglio del connubio della sua filosofia e della sua prosa, impastate e tenute insieme ad arte con una massiccia dose di ironia, lo abbiamo forse nelle “Operette Morali”. Un testo, questo, difficilmente catalogabile in quanto posto all’intersezione variamente combinata di fiction mitologica, sceneggiatura teatrale, parabola laica, dialogo socratico; e sicuramente altro ancora.
Il titolo, dal canto suo ( ma anch’esso è ironicamente ingannevole ), già da subito ci indirizza con modestia a vederle come brevi novelle senza troppe pretese di magisteri esistenziali.
Operette, appunto, e non opere.
Funzionali ad affrontare armati, per quanto possibile, quel “secol superbo e sciocco” le cui “magnifiche sorti e progressive” sono destinate a collassare di fronte al “formidabil monte / sterminator Vesevo” ( può capitare ogni tanto sia la poesia a spiegare la prosa, e non viceversa…).

Leopardi dopo la stagione de “L’infinito” e de “L’ultimo canto di Saffo”, aveva perso l’ ‘ispirazione poetica, il ritmo, l’armonia del verso, e allora il breve racconto apparentemente giocoso gli parve il più adatto per trasmettere, per lo più attraverso dialoghi paradossali e serrati, la sua denuncia di volta in volta verso la società, la Natura, le storture della Storia, e la sua dimostrazione attraverso una logica giocata sull’ironia, della fallacia delle certezze del mondo, vale a dire dei suoi ( del mondo ) pregiudizi.

Una critica così irridente, irriverente e profonda, non poteva essere gradita.
E infatti alle sue bazzecole esistenziali al Concorso indetto dall’ “Accademia della Crusca” fu preferita “La Storia d’Italia dal 1789 al 1814” di Carlo Botta, che nessuno ricorda più; nel senso che nessuno ricorda più l’opera e nessuno ricorda più Carlo Botta.
Perché se non si può escludere che i Commissari all’atto del voto non avessero compreso di avere tra le mani uno dei massimi testi dell’Ottocento, è più probabile che invece lo avessero compresero fin troppo bene, e paventando che un simile arguto carosello di bozzetti colorati, abitati da lune parlanti, da gnomi e giganti, da mummie risvegliate, da diavoli e malandrini, giù giù fino al più quotidiano sconosciuto venditore di almanacchi, poteva essere destabilizzante, socialmente pericoloso, nonché pernicioso per le coscienze, e sapendo altresì che l’ironia può indurre la curiosità di poggiare l’occhio sull’altra parte del cannocchiale rimettendo in forse certezze acquisite e rovesciando i guanti con cui si tocca il mondo, lo privarono di quanto meritava: il riconoscimento e, ancor più, la divulgazione.
Non tanto però che le “Operette” non giungessero fino a noi. E noi, dato il genere letterario, possiamo leggerle aprendo il libro a caso, confidando comunque nel fatto che sarà sempre un piccolo capolavoro ciò che ci cadrà sotto gli occhi. 
Tuttavia, essendo ordinate in sequela temporale, una lettura che non segua la naturale progressione delle pagine rischia di rendere più difficile trovare la chiave che apre la porta ai messaggi del poeta.
Non è, insomma, una contraddizione dire che le “Operette” sono compiute in se stesse, ma che anche si sostengono e sostanziano a vicenda nella costruzione di un caleidoscopio dei vizi, dei vezzi
e delle supponenze ( queste ultime nel doppio significato di pretese e di ipotesi ) presenti nella mentalità dell’uomo dell’Ottocento (…e non solo! ).
Soprattutto nel momento in cui questi le coniuga secondo il suo paradigma di antropocentrica primazia.

Fulvio Baldoino

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