Un conflitto senza fine

Perché piena e incondizionata solidarietà con Israele

 Il conflitto israelo-palestinese è tornato ad occupare le prime pagine dei giornali e ancora una volta provoca una spaccatura nell’opinione pubblica mondiale. Si può legittimamente stare da una parte o dall’altra, per convenienza, senso di appartenenza, affinità politica ma la pretesa di decidere da che parte sta la ragione e da che parte sta il torto è sicuramente infondata. C’è chi se la cava sostenendo che entrambe le parti hanno ragione o che entrambe hanno torto o, salomonicamente, che tutte e due hanno un po’ di ragione e un po’ di torto. 

 Ma nella politica, e in particolare nella politica internazionale, il moralismo deve restare fuori della porta e non è questione di aver torto o ragione. Semmai si può porre la domanda di chi in questo momento abbia avuto interesse a rinfocolare un problema che comunque esiste, data dalla creazione dello stato di Israele ed è praticamente insolubile. Com’è noto lo stato ebraico nasce per volontà dell’Inghilterra, come strascico e conseguenza della seconda guerra mondiale, che aveva visto la legione ebraica combattere a fianco degli alleati contro l’Asse, la Turchia e gli arabi. Vista così, per quanto si sofisticheggi sulla presenza ininterrotta di comunità ebraiche nell’area giordano palestinese o sull’assenza di qualsiasi formazione politica nella quale si riconoscessero le tribù arabo palestinesi, si trattò di sfrattare i vecchi abitanti per far posto ai nuovi venuti: un’operazione del tutto artificiale resa possibile dalla temperie postbellica, un’operazione che non solo realizzava il sogno sionista ma era soprattutto un risarcimento per quello che gli ebrei avevano subito dalla Germania nazista.  Col dettaglio non trascurabile che l’onere del risarcimento non gravava sui tedeschi ma sugli arabi palestinesi diventati il capro espiatorio. La diaspora (quante ce ne sono state nella storia!) ebraica era iniziata in età romana come conseguenza della guerra giudaica e proseguì per tutto il corso del medioevo lungo tutte le direttrici del medio e vicino oriente e dell’Europa, dalla Spagna alla Russia.

Con una caratteristica comune: la discriminazione, la ghettizzazione e la ricorrente persecuzione che contribuirono ad esasperare la naturale tendenza a salvaguardare la propria identità culturale e religiosa. Solo i romani, che pure sono responsabili della più feroce mattanza del popolo ebraico, dimostrarono anche nei suoi confronti  quella tolleranza che riservavano a quanti immigrati, provinciali e stranieri rispettavano le loro leggi; ma se in età imperiale le comunità ebraiche godevano pienezza di diritti, da quando il cristianesimo divenne religione di stato ebbe inizio insieme alla caccia ai gentili restii alla conversione quella all’ebreo deicida e insieme il suo forzato confinamento. È veramente un miracolo che nonostante quel confinamento, i pregiudizi che per secoli sono pesati sul loro capo e le difficoltà imposte dalla chiesa alla loro integrazione, gli ebrei abbiano saputo apportare un contributo decisivo alla cultura europea. Per di più sono stati all’avanguardia nel processo di laicizzazione e hanno mostrato come ci si possa liberare senza compromessi dal bavaglio dell’autorità religiosa: lo fece Spinoza, pagandone le conseguenze, l’hanno fatto illustri scienziati come Lombroso e le menti spregiudicate di Freud e di Einstein, per non dire di Marx. Difficile immaginare cosa sarebbe l’Europa senza gli ebrei, l’unico vero antidoto alla paralizzante etica cristiana, cattolica o protestante che fosse. Da Galilei a Cartesio, da Leibniz a Newton, da Kant a Hegel tutti hanno dovuto venire a patti coi dogmi della chiesa, accettare qualche forma di doppia verità, prestarsi ai più ridicoli contorcimenti concettuale e chi non l’ha fatto ha rischiato grosso.

Ma senza scomodare le grandi personalità divenute estranee alla comunità ebraica anche l’ebreo che non si limita al rispetto formale della tradizione e crede fermamente nella Torah e nel Talmud è intimamente laico e guarda alla realtà senza paraocchi. Non ha avuto bisogno di liberarsi faticosamente dalla sessuofobia cristiana, non ha dovuto sopportare il peso del servilismo intellettuale e morale, non ha conosciuto altra autorità che non fosse fondata nella propria coscienza. Per questo sono convinto che in lui si esprima il meglio della civiltà e della dignità umane ed è per questo che non ho nessuna remora a confessare che la nascita dello stato di Israele ha privato l’Europa di decisive risorse morali e intellettuali. Avrei preferito che il sionismo fosse rimasta un’utopia estranea alla grande maggioranza dei cittadini europei di religione ebraica, tanto più che l’antisemitismo diffuso fra i ceti popolari e in particolare nell’Europa orientale era destinato a scomparire a mano a mano che la diffusione del benessere e dell’istruzione li avesse emancipati dall’ignoranza, dai pregiudizi e dalla soggezione alla chiesa. La storia ha preso un’altra piega: l’ignoranza, l’invidia sociale, il pregiudizio condizionarono la politica del terzo Reich fino alla follia della “soluzione finale” della questione ebraica. Il risultato è stata un’emorragia sociale e culturale per tutta l’Europa e la nascita di uno stato ebraico, che resta, comunque, una gemmazione dell’Europa nella quale si concentrano il meglio della cultura e dell’intelligenza nelle quali ci riconosciamo. E quindi guai mettere in dubbio l’esistenza di Israele, soprattutto se a farlo sono gli europei.

Ma resta il nodo del conflitto. Quando finirà tutto questo? Sic stantibus rebus una soluzione vera e definitiva non c’è, è semplicemente impossibile. Se la congiuntura politica internazionale è favorevole, come è successo con l’amministrazione Trump, ci possono essere momenti di calma e di apparente pacificazione, con l’odio che continua a covare pronto a esplodere non appena si affacci sulla scena politica un tentennante e pavido Biden mal sorretto dalle contraddizioni interne al partito che l’ha fatto eleggere. il conflitto israelo-palestinese nasce ed è alimentato dalla funzione identitaria della religione islamica e non per niente è il focolaio del terrorismo. Finché le religioni positive non lasceranno il posto ad una personale, privata, intima concezione della realtà e dell’esistenza quel conflitto è desinato a durare. Con l’illuminismo il cristianesimo ha perso i suoi artigli: espressioni come Europa cristiana o Occidente cristiano non hanno più senso, anche se fa comodo al mondo islamico resuscitare i crociati, e lo stesso potere che la chiesa romana mantiene si basa più sulla sua base finanziaria e organizzativa che sulla sua capacità di mobilitare le masse. Capacità che l’Islam mantiene intatta per ragioni storiche, sociali e politiche. Tant’è che Erdogan, che nonostante la lezione di Kemal Atatürk rimane vittima volontaria e consapevole della confusione fra politica e religione, pensa che l’intervento di Bergoglio sarebbe decisivo per dirimere il conflitto. Ci mancherebbe altro: un bel tuffo nel buco nero del passato! E non a caso ciò che più spaventa il mondo islamico è lo spettro della secolarizzazione impersonato dal grande Satana, l’America. Se la religione non sparisce dalla scena politica e, aggiungo, dalla società civile, i conflitti non possono risolversi in un ambito economico e politico. Perché quando le motivazioni sono economiche o territoriali i conflitti hanno comunque una soluzione, punto di partenza per nuovi assetti e nuovi equilibri; ma se a determinarli è la  lotta fra divinità, fra prospettive escatologiche e fedi esteriorizzate incompatibili fra di loro, sono destinati a perpetuarsi. Gli scontri di civiltà sono un assurdo retaggio del fanatismo religioso, al quale a ben vedere riconducono anche il suprematismo e il razzismo. La religione ha non solo incoraggiato ma prodotto il colonialismo: gli interessi economici sono venuti dopo, non prima – l’analisi marxiana, brillante nella forma, nella sostanza è sbagliata, sbagliata funditus; il proselitismo religioso ha giustificato lo sterminio fisico e culturale di interi popoli, la religione ha causato una frattura all’interno del mediterraneo, crocevia di popoli e di culture che finivano per integrarsi nonostante o grazie ai conflitti. Poi crociati da una parte e musulmani dall’altra, con gli ebrei presi nella tenaglia degli uni e degli altri. Ebrei che, dentro e fuori lo stato d’Israele, anche se non rinunciano alla pratica della circoncisione e rivendicano con orgoglio la loro identità, sono un esempio di tolleranza e di libertà di pensiero. I tempi dell’anatema a Spinoza sono lontani e definitivamente superati.

Questa metamorfosi non l’ha fatta l’Islam ma non l’ha fatta nemmeno il cristianesimo, che ha intossicato la società europea e occidentale in maniera tale che l’intolleranza che lo ha caratterizzato per secoli sopravvive nel costume e negli atteggiamenti anche fuori dell’ambito religioso. Lo dimostrano nella prassi e nei progetti politici della sinistra la divisione fra buoni e reprobi, la presunzione di essere depositari della verità e la pretesa di imporla agli increduli e agli infedeli, la demonizzazione di chi non si lascia convertire, il rifiuto di ascoltare gli argomenti dell’avversario come se dietro di essi si nascondesse il maligno. Edonista, consumista, laicista a parole ma intimamente bigotta e untuosamente ipocrita, la sinistra è l’espressione politica e ideologica dei guasti dell’eredità della chiesa, che si è per naturale affinità mescolata con l’eredità del comunismo. Un connubio micidiale, i cui effetti si ravvisano nelle scelte, o meglio nelle non-scelte, della politica. Lo vediamo nel caso dell’invasione, che ci costringe a guardare con invidia alla chiarezza e alla determinazione dei socialisti spagnoli e di Macron, al pragmatismo della Merkel e alla coerenza dei Paesi del nord Europa e dell’est. Da noi incertezza, cerchiobottismo, scaricabarile e testa sotto la sabbia. La stessa incertezza, per non dire doppiezza che a parole dichiara la propria solidarietà a Israele mentre strizza l’occhio alla nuova intifada che invece dei sassi lancia sulla testa degli ebrei missili comprati con i soldi degli aiuti umanitari.

  Pierfranco Lisorini  docente di filosofia in pensione  

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