Un caffè?
Un caffè?
Ogni occasione è buona per un caffè. Specie qui da noi, in tutta Italia.
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Un caffè?
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Ogni occasione è buona per un caffè. Specie qui da noi, in tutta Italia. Abbiamo una sincera venerazione per questa scura bevanda. Se ci si incontra per strada e si ha voglia di chiacchierare lo si prende come una scusa. È anche un offerta gentile, e poco ingombrante, poco dispendiosa, tale da non mettere in imbarazzo chi la riceve e neanche chi la offre. A Napoli c’è addirittura la civilissima tradizione del “caffè sospeso”, cioè un caffè lasciato pagato al bar per i bisognosi. Così, sulla fiducia. Qualche decennio di anni fa, se ci si recava in visita a vicini o parenti, o se questi venivano da noi, si arrivava immancabilmente al momento del caffè. Era tale la consuetudine che non si chiedeva neppure se facesse piacere. Si prendeva il macinino dall’apposito stipo, lo si riempiva di chicchi scuri e si macinava lentamente, chiacchierando del più e del meno. Si poneva dunque l’acqua e la polvere nell’apposito filtro e si accendeva finalmente il fornello. Generalmente si cercavano le tazzine e piattini del servizio buono, rare porcellane sottili e decorate a tratti sottili, zuccheriere, guantiere lucide su cui porgere la bevanda. Quasi sempre lo zucchero che stava nel servizio era concrezionato in un unico blocco, occorreva dunque colpirlo con una certa violenza per frantumare quel che pareva un cristallo connesso con il contenitore.
Per fare un caffè ci voleva un quarto d’ora, ma, chissà perché, mi par di ricordare che non avessimo avuto fretta. Anche ai bambini si dava un poco di caffè, due gocce, forse diluito in poca acqua. Mia nonna mi lasciava lo zucchero sul fondo della tazzina, quasi una crema. Alcuni, più sofisticati, al primo sorgere del liquido bruno della caffettiera, ne sequestravano un poco, mescolandolo energicamente con lo zucchero per ottenere una schiumetta color nocciola, molto apprezzata alla vista, mentre copriva la superficie del caffè nella tazzina. A quei tempi si fumava, si fumava tanto e dappertutto. E allora, dopo il caffè, ci voleva una bella sigaretta, che per i più anziani era pure questo un rituale: tabacchiera, cartine, accendino. Volute acri e azzurrine ingombravano la cucina e si impastavano con racconti, pareri, risate e ricordi. In questi pochi anni c’è stata una grave degenerazione dei costumi: non più macinino, ma caffè macinato, pronto all’uso. Per un certo periodo è andato di moda il dosatore del caffè, che permetteva di risparmiar tempo: un giro di manopola, e la caffettiera era pronta. E non fu facile abituarsi a questo ordigno, visto che più d’uno, nella mia famiglia, aveva sollevato il contenitore con la valvola di fondo ancora aperta, spandendo la preziosa polvere per ogni dove, ottenendo aspri rimproveri dai parenti presenti. Ma abbiamo superato anche questo trauma… Più recentemente sono comparse le splendide “cialde” di caffè, una sorta di scatoletta ripiena del macinato di miscele tutte pregiatissime, per dei veri gourmand… Per fare un caffè ci vogliono trenta secondi. Si può trangugiare in piedi, e poi riavviarsi ognuno per le proprie faccende. Non abbiamo tempo da perdere. E comunque il caffè si è complicato e differenziato a tal punto da far diventare i professionisti (i baristi) dei veri funamboli delle preparazioni: macchiato caldo o freddo, decaffeinato, con la schiuma, con il latte a parte, di orzo, di ginseng, di cicoria… Ah no, di cicoria no. Lo facevano nel ventennio, il caffè con la cicoria. Ma se lo gustavano con calma, anche se non era un granché… Però percepivano l’importanza di darsi una pausa, una piccola sosta in cui chiacchierare. Tutte le cose che facciamo in cucina devono avere bisogno di tempo, di cura, di dedizione. Sia per la preparazione, sia per poter essere consumate con cognizione e calma. Prima di tutto perché se lo meritano, e poi perché è bello mangiare e bere insieme, condividendo anche il tempo per la preparazione e per il consumo, come dicono in terra sarda: “In su pani dividiu sin ci secci s’angelu”. E se non sapete cosa vuol dire datevi d’attorno: chiedete a un sardo, magari offrendogli un caffè. |