Tre cose per Israele
Sono state tre le cose che Israele ha nel giro di pochi giorni dovuto avversare nel tentativo di difendersene.
La prima cosa in ordine di tempo è stata la frase che il papa ha scritto sul suo libro “La speranza non delude mai. Pellegrini verso un mondo migliore”:
A detta di alcuni esperti, ciò che sta accadendo a Gaza ha le caratteristiche di un genocidio. Bisognerebbe indagare con attenzione per determinare se s’inquadra nella definizione tecnica formulata da giuristi e organismi internazionali.
Parole che hanno scatenato la reazione indignata di Israele il quale le ha intese come antisemite.
Era prevedibile.
Qualsiasi critica infatti è stata intesa così in tutte le precedenti situazioni in cui veniva espresso un sospetto sul suo modus operandi.
Analizzando la frase in oggetto, vedremo che non si afferma qualcosa che deriva da una convinzione personale o da una generica impressione magari di parte; si vuol invece dire che vi sono delle persone singole o appartenenti ad una Organizzazione le quali per essere a conoscenza della questione più approfonditamente di altre ed avendone maggiore esperienza, hanno visto nelle azioni militari dell’IDF ( Israel Defense Forces ) le caratteristiche tipiche del genocidio.
Il che non significa che si tratti effettivamente di un genocidio. Lo dicono alcuni esperti. Non si dice tutti.
E se fossero anche pochi a dirlo, data la gravità della materia, bisognerebbe indagare e anzi sarebbe una colpa non farlo.
Si potrebbe obiettare che l’IDF sostiene il contrario. Ma, pur lasciando da parte il fatto scontato che difenda se stessa e considerandola alla stregua di qualsiasi organismo terzo, non si può non evidenziare almeno tre cose che legittimano il dubbio:
1- Se davvero l’IDF non avesse nulla da nascondere non vieterebbe a tutti i giornalisti che non sono embedded o non sono israeliani di entrare a Gaza, e non cercherebbe in tutti i modi, come riportato dall’articolo su “L’Espresso” di Antonio Fico pubblicato a un anno esatto dall’operazione “Alluvione di Al-Aqsa”, di impedire ai giornalisti gazawi residenti di far fronte liberamente al loro lavoro, come dimostrato dall’altissimo numero dei reporter “silenziati” dal 7 ottobre ’23 al 7 ottobre 2024,( 106 arrestati senza accuse e torturati, e 165 uccisi ).
2 – Le organizzazioni internazionali per i diritti umani sono tutte concordi nell’attribuire all’IDF un genocidio o, se non ritengono che il dettato giuridico formalmente lo consenta, una strage o un massacro.
Esse, comunque, a differenza dei comunicati del Governo Netanyahu, prima di dare per vere le notizie a loro disposizione, seguono tassativamente un protocollo.
Portando un caso paradigmatico con Amnesty International, esso consiste nell’essere presenti sul posto, condurre interviste ai sopravvissuti, analizzare i referti medici, documentare l’uso delle armi, fotografare le aree colpite servendosi anche della tecnologia satellitare, e infine consegnare tutto al team multidisciplinare Crisis Evidence Lab, costituito appositamente per procedere con tempestività e accuratezza al vaglio delle informazioni e finalmente alla loro diffusione.
Ciò in generale.
Focalizzando in particolare invece lo sguardo alla diatriba se ad oggi siano davvero più di 43.000 i morti che l’IDF ha causato tra i palestinesi, o se siano invece di meno come afferma il Governo israeliano, è difficile trovare dati concordanti.
C’è comunque da dire che in essa non si considerano quelli che per le ferite non curate, per le malattie contratte, per l’inedia e l’avitaminosi, per l’abulìa, la depressione profonda e il senso di disperazione annichilente di aver perduto i propri cari o di non poter fare nulla per aiutarli, per l’interruzione delle cure di malattie pregresse come il diabete, le cardiopatie o le malattie oncologiche in assenza di ospedali funzionanti, per le conseguenze di non avere più una casa in cui ripararsi dal freddo e dalla pioggia e un lavoro per dare sostentamento a sé e alla famiglia, in prospettiva sono comunque purtroppo molti, molti di più.
Venendo alla seconda parte della frase, coerentemente alla prima resta nell’ambito dell’ipotesi, e dice che per vedere come stanno effettivamente le cose, bisognerebbe indagare con attenzione.
Cosa c’è di sbagliato in tutto ciò?
C’è, a sentire chi non è d’accordo e ha voce in capitolo nei media ( in Italia, per fare alcuni nomi, sebbene con sfumature e accenti diversi, intellettuali e giornalisti come Elena Loewenthal, Fiamma Nirenstein, Ugo Volli, Assia Neumann Dayan, o rappresentanti istituzionali del mondo ebraico come il rabbino capo della Comunità ebraica di Roma Riccardo Di Segni o Ruth Dureghello, ex Presidente della medesima ) che parlare di genocidio non è concepibile perché il vero genocidio è stato quello della Shoah, che verrebbe sminuita nella irripetibilità della sua tragedia se si pretendesse di affiancarle qualcos’altro.
Come dire che quelli degli Armeni e degli Zingari non furono genocidi, e quello dei Tutsi neppure, nonostante siano stati riconosciuti tali dai maggiori organi indipendenti internazionali.
La seconda cosa è stata il mandato di cattura per il primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu e per il suo ex ministro della Difesa Yoav Gallant, nonché per il capo dell’ala militare di Hamas, Mohammed Deif, per “crimini contro l’umanità”.
Israele, e con esso quegli altri Stati, compresa l’Italia, pronti sempre a modellare la loro linea politica su quanto fa e dice il binomio USA-Israele, si lamenta dell’ingiustizia di tale Mandato perché a suo dire non si può mettere sullo stesso piano due esponenti di un Governo democratico con un terrorista.
Ora, tralasciando la discussione di quanto sia veramente democratico tale Governo, l’obiezione che esso muove alla Corte Penale Internazionale ha la funzione politica di mostrare reattività e indignazione, e di dare un appiglio preventivo a chi tra gli Stati non vuole trovarsi ad eventualmente gestire un arresto imbarazzante perché contrasta con i desiderata degli Stati Uniti. In realtà però muove una simile obiezione attraverso due falsi sillogismi, seguendo la logica dei quali
– Se un individuo ha commesso molti crimini ma meno di quelli commessi da un altro, al fine di rimarcare la differenza bisogna rendere il primo non perseguibile.
– Essere un esponente di uno Stato democratico di per sé esclude la possibilità di essere contestualmente un terrorista.
Naturalmente ciò ha suscitato un vespaio di commenti. A favore e contro.
Ma uno soprattutto, non necessariamente più rilevante degli altri, merita di essere sottolineato a causa della sua “originalità”.
Si tratta della dichiarazione dell’ambasciatore israeliano presso la Santa Sede.
In essa si sostiene che non quello di Gaza è un genocidio, ma quello del 7 ottobre ’23.
L’originalità sta nei numeri, perché tradotto significa che è genocidio quello dell’uccisione di 1205 persone e della cattura di 251 ostaggi, e non lo è quello di un numero di persone almeno trenta volte superiore; come se un palestinese valesse 30 volte meno di un israeliano.
E’ molto fastidioso fare una conta di questo tipo, perché le persone non sono numeri. Il fatto è che lo si eviterebbe volentieri se non si dovesse replicare ad una affermazione di cui l’ambasciatore non chiarisce la logica, che comunque non può essere matematica, perché se lo fosse sarebbe evidentemente fuori misura.
La terza cosa è stata un’altra frase del papa, che nonostante la sua importanza quasi tutti i quotidiani hanno omesso oppure relegato brevemente in una pagina interna, pronunciata durante l’Atto Commemorativo del 40° anniversario del Trattato di Pace e di Amicizia tra Argentina e Cile il 25 novembre scorso, in cui così si esprime:
Desidero menzionare due fallimenti dell’umanità, l’Ucraina e la Palestina, dove si soffre e dove la prepotenza dell’invasore prevale sul dialogo
sottintendendo inequivocabilmente la Russia e Israele.
Una presa di posizione molto coraggiosa viste le polemiche suscitate da quanto appena detto più sopra. Tanto che ci si potrebbe chiedere come mai invece di smorzare il clamore di quelle sue parole, lo ha ravvivato con queste.
Non si conosce la risposta, ma la si può tentare: il papa pur rendendosi conto che qualsiasi critica sarebbe stata tacciata di antisemitismo, tra tacere prudentemente e parlare sinceramente ha scelto questa seconda strada, più scomoda ma insieme utile a far giungere ai Governi titubanti il messaggio che se sceglieranno di rispettare la sentenza della Corte Penale Internazionale sapranno di non essere soli.