TOBAGI A 30 ANNI DALLA MORTE

Stampa Democratica fondata da Walter Tobagi
Sempre da una parte sola. Quella dei giornalisti. 
  TOBAGI A 30 ANNI DALLA MORTE  

Stampa Democratica fondata da Walter Tobagi
Sempre da una parte sola. Quella dei giornalisti. 
  TOBAGI A 30 ANNI DALLA MORTE  

 

 

Si è tenuto a Milano,  giovedì 27 maggio, al Corriere della Sera, un importante incontro in memoria di Walter Tobagi, a trent’anni dal suo assassinio per mano dei terroristi rossi.

 

Dopo i saluti introduttivi di Piergaetano Marchetti e di Maristella Tobagi, sono intervenuti a disegnare quel periodo lo storico Mimmo Franzinelli e l’allora sindaco di Milano Carlo Tognoli ed è stato letto un contributo scritto del cardinale Carlo Maria Martini. Hanno parlato sul sindacato e il ruolo dei giornalisti il professor Michele Tiraboschi (allievo e continuatore di Marco Biagi) e il collega Maurizio Andriolo, vicepresidente dell’Inpgi; di Tobagi cristiano il collega Giuseppe Baiocchi; di Tobagi giornalista gli inviati del Corriere Antonio Ferrari e Luigi Ferrarella.

Ha concluso i lavori, con un intervento riassuntivo il direttore del Corriere, Ferruccio De Bortoli.

 Riportiamo qui di seguito gli interventi dei colleghi di Stampa Democratica Maurizio Andriolo e Giuseppe Baiocchi.

 

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IL SINDACATO DEI GIORNALISTI

 Maurizio Andriolo

 Oggi ricordiamo il 30° anniversario dell’assassinio di Walter Tobagi. Giorni fa è stato celebrato il 40° della promulgazione dello Statuto dei Lavoratori. Due fatti, non una concomitanza, che hanno un legame umano e sindacale.

Ma quella legge 300 era inquadrata in un contesto sociale – politico già di per se delicato. C’era stata Piazza Fontana, un autunno caldo, era in corso uno scontro ideologico nel picco della guerra fredda, gruppetti e gruppazzi si scatenavano. A Roma, più che a Milano, si aveva la sensazione concreta di una guerriglia crudele. Omicidi in casa, decine di aggressioni. Io ero un cronista di strada, come altri dovevo testimoniare, essere presente ad uno stillicidio di episodi sanguinosi.

 A Milano, peraltro, erano già apparse scritte e stelle brigatiste sui muri di quel quartiere Lorenteggio dove si annidavano i primi nuclei BR. Persino un bar già conosciuto come centro dei loro incontri. Tobagi era l’inviato del Corriere che per studi e cultura analizzava la cronaca di ogni giorno e i fatti sindacali come punti focali dello sviluppo sociale. BR o come dir si voglia si preparavano alla disarticolazione dello Stato, ma era logico che le prime trincee da travolgere fossero quelle del “riformismo”. Quel particolare mondo sociale, politico, culturale che propugna la trasformazione di un Paese con equità e giustizia.

Dopo Walter Tobagi abbiamo avuto Biagi e D’Antona. E altri, negli anni detti di piombo: economisti giuslavoristi, persone di cultura, docenti, magistrati: tutti di cultura riformista. Furono segnalati per essere uccisi o “puniti”.

 Perché un riformista fa paura. Non testimonia soltanto. Ricordo una frase di Tobagi: “dopo due anni di clandestinità sono cotti….” A significare che la sua lettura approfondita del fenomeno terrorista sapeva cogliere i loro punti deboli.

 Si finisce allora per immergersi in una visione semplicisticamente controfattuale della storia, se, più che interrogarsi sul significato e i motivi dell’omicidio, ci si trastulla con ipotesi tipo “avremmo potuto salvarlo”.  Il suo omicida, peraltro, era un giovane intellettualmente modesto e culturalmente insignificante. Non aspirava ad entrare nelle BR. Era già nella galassia terroristica. E’ pur vero invece che, con alcuni altri, frequentava gruppi o circoli milanesi che allora si ritenevano “avanzati” e propugnavano persino una chiesa più “progressista”, ma non si rendevano conto che le parole diventano pietre. Tobagi sindacalista era accusato di essere “giallo”, di avere una collusione con i “padroni”; volantini con queste accuse venivano addirittura esposti in bacheca.

 Peraltro Barbone e i suoi erano ben noti. Usavano introdursi nelle ultime file dei cortei studenteschi e, sparando, tentavano di trasformare la protesta in scontro.

Di lui ne ebbi superficiale e occasionale conoscenza attraverso un esponente del movimento studentesco che all’epoca lo contestò pesantemente.

 Tobagi era un giornalista nato, istintivo, ma la sua preparazione culturale, i suoi studi, non potevano distaccarlo dalle realtà sindacali.

Approfondimento, critica, concezioni nuove per un Sindacato che si era burocratizzato e impoverito nelle proposte e nel tentativo di cercare relazioni industriali diverse, senza però fare alcuna autocritica.

Un Sindacato dei giornalisti che doveva affrontare una crisi del settore e della categoria epocale, che viveva a fatica la trasformazione dell’impresa e l’introduzione delle tecnologie. I dirigenti sindacali di allora avevano fondato tutto sul potere, sull’egemonia, sull’illusione di poter co-governare le testate; e a questo fine si era scelta l’abdicazione della dignità economica (i contratti da 10.000 lire) e l’affidamento ai Comitati di Redazione di un potere contrattuale che si rivelava effimero e che quindi finiva per cercare un sostegno nei più potenti (allora) Consigli di fabbrica.

Quindi era ovvio che si avesse un monopolio sindacale che soffocava ogni voce alternativa e la stessa democrazia nelle redazioni.

 A quei tempi il Corriere era punto fondamentale nella vita nazionale e centro di conflittualità, a volte esasperata, che investiva persino la città, gli altri giornali, traboccava nei Sindacati a ogni livello, nei partiti. Le ”esortazioni” che ci venivano date di essere comunque unitari con le rappresentanze poligrafiche, mascherava allora il tentativo di inglobare il Sindacato dei giornalisti. Le Confederazioni tuttavia non escludevano per loro interessi di creare nelle loro organizzazioni rappresentanze dell’informazione. (Progetto peraltro che non è venuto mai meno).

 Cambi di direttori o rinnovo dei Comitati di redazione erano sempre occasioni di aspri dibattiti. Uno lo ricordo in particolare, perché dovettero intervenire il Vicesegretario della Fnsi Curzi e altri autorevoli giornalisti. Queste assemblee erano tuttavia sostanzialmente a senso unico; però mai furono determinanti sull’uscita del Corriere, al quale tutti noi, a livello di diversa presenza e responsabilità, tenevamo moltissimo. Al Corriere a quei tempi si entrava in genere per capacità professionale, pur soffusa talvolta di un po’ di lottizzazione.

 In questo contesto Tobagi riuscì a individuare i nodi specifici dei problemi sindacali, forte della sua esperienza e dei suoi studi. Non per nulla la sua tesi di laurea era incentrata sulle Confederazioni sindacali. Mille pagine che prendevano in esame le vicende dal 1945 al 1950. E alla storia del sindacato aveva dedicato i suoi libri migliori. Individuò cosi che la democrazia doveva penetrare nella struttura sindacale dell’informazione e si fece paladino, tra l’altro, dell’introduzione del sistema proporzionale nella scelta delle rappresentanze.

 Tobagi al tempo stesso non ritenne mai che il Sindacato, pur nelle sue gravi difficoltà, fosse  sconfitto. Eppure in quel periodo (1978) tutto sembrava perduto: le concentrazioni avanzavano, l’ “impero” Rizzoli si affermava. Si parlava di crisi dell’editoria e  la “riforma” per l’editoria era quasi pronta (1981) con una distribuzione consistente di finanziamenti dello Stato. Ci si tormentava sul tema della libertà di stampa, sul segreto professionale dei cronisti. Tobagi scriverà invece che si doveva respingere “l’atteggiamento sfiduciato di quanti immaginano un Sindacato in svendita”. Riafferma che il “sindacato non fa regali per grazia ricevuta, ma intende salvaguardare l’indipendenza professionale del giornalista singolo e dei singoli corpi redazionali…”.

 Dal punto di vista professionale Tobagi ha come figura di riferimento Mario Borsa. Il direttore del Corriere subito dopo la Liberazione che pose le questioni nodali di un giornalismo libero e democratico, che ha un rapporto con la proprietà senza compromessi, che vede il giornalista dignitosamente autonomo che informa , con coscienza.

 La memoria è spesso arida, il ricordo è gelido. Non trasmettono mai l’emozione, le ansie degli episodi vissuti, delle decisioni prese, delle situazioni affrontate. Non soppesa con sufficiente importanza i veleni che si spargevano allora  a piene mani, senza giustificazione. Tobagi si trovò anche lui in una fossa di serpenti. Il mondo dell’informazione dava il peggio di sé. Come accade anche oggi, forse, perché è soprattutto una società individualista. Questo comunque non doveva o poteva portare ad un omicidio. Le logiche complessive di chi voleva l’Italia pedina centrale del disordine, regione sud americanizzata lo rese possibile.

 Il nostro Paese non riesce da decenni a liberarsi, come sarebbe giusto, da un’agra e drammatica contrapposizione politico-ideologica. Situazione che ha finito per pregiudicare lo sviluppo sociale e nazionale favorendo invece la continuazione di una vera e propria “guerra” tra fazioni e che ha contribuito alla sopravvivenza di opachi  gruppi di potere e al sacrificio di troppe vittime innocenti.

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 TOBAGI E IL MONDO CATTOLICO 

 Giuseppe Baiocchi

 Vi ringrazio di cuore per l’invito e anche per l’argomento assegnatomi. Anche perché adesso, quando si è ormai depositata la polvere delle polemiche politico-giudiziarie ed è tornata ad avere cittadinanza nel discorso pubblico la dimensione religiosa, fa ancora fatica ad emergere la consapevolezza diffusa che la condizione del credente fosse la solida roccia, il fondamento sicuro da cui scaturivano per Walter l’impegno civile, il rigore professionale e anche le scelte scomode e controcorrente nelle quali espresse il suo mite coraggio. Lo confermano da sempre i suoi familiari e, se permettete, lo confermo anch’io che sono l’unico collega ad aver condiviso con Tobagi gli studi storici, l’assistentato universitario e la fede religiosa, oltre al lavoro qui al Corriere e all’impegno nel sindacato.

 Tutti sapevano che Walter era cattolico, credente e praticante: un aspetto non esibito ma neppure nascosto o riservato. E tuttavia non era il “prodotto” di formazione del vasto associazionismo cattolico, com’era accaduto per molti. E’ sempre stato un “semplice fedele”, un laico credente che era disponibile in parrocchia e che sentiva l’esigenza di approfondire le Scritture, nell’ambito di quelle esperienze-pilota di letture bibliche che poi diverranno col tempo patrimonio comune delle comunità ecclesiali. Semmai preferiva mettere alla prova l’inquietudine della sua fede nel mare aperto della società di allora, lacerata e smarrita sotto il peso della violenza, attentissimo a cogliere, nella sua approfondita lettura, i germogli positivi e i minimi segni di speranza.

 Forse è anche per questo che di Chiesa e di mondo cattolico (allora attraversato dai fermenti post-conciliari) si è occupato professionalmente pochissimo. E non ne scrive mai quando lavora ad “Avvenire”, il quotidiano dei vescovi. Anni che ricorderà come i più sereni. Allora c’erano stati il matrimonio e la paternità, la laurea in storia con una tesi di mille pagine sui sindacati confederali degli anni ’45-’50 e il suo primo libro, uscito nel 1970. Ovvero la “Storia del Movimento Studentesco e dei marxisti-leninisti in Italia”, dove, da “storico del presente” coglieva nei fatti la drammatica contraddizione del Sessantotto. Quella cioè di abbandonare ben presto la prospettiva del futuro da costruire per rivolgersi, nel magma della sinistra politica e culturale, soltanto al passato. E di costituire così la tragica rivincita dei “nonni”, rivoluzionari e massimalisti, contro i “padri”, democratici e costituzionali, scivolando inesorabilmente verso la violenza, prima verbale, poi fisica e quindi armata.

 Eppure di Chiesa e di cattolici si occupa anche professionalmente pur se in maniera episodica. C’è un suo bel libro per “Il Mulino”, una matura biografia di Achille Grandi (che magari la CISL farebbe bene a riproporre). Ci sono, li abbiamo ripresi nella vasta antologia curata cinque anni fa per l’Associazione Lombarda dei Giornalisti, interventi sporadici ma significativi, e sempre dentro l’attenzione alla novità. Come gli articoli sul fenomeno allora nuovo di Comunione e Liberazione negli atenei, che Walter racconta come sono, senza liquidarli come “clericofascisti” secondo la vulgata allora corrente. Oppure i contributi su Papa Woityla, sempre problematici, come quello del confronto con la realtà omosessuale, che forse non avrebbe sfigurato nel bel volume che il Corriere oggi ha mandato in edicola e dove si nota dolorosamente l’assenza dell’argomento religioso.

 Credo comunque che, al di là del ricordo, anche un’opportunità come questa possa costituire davvero una “memoria del futuro” (era un’espressione che, da storico, gli piaceva molto). E sia il caso di dar conto del suo interrogarsi in profondità di che cosa volesse dire, nella temperie di quegli anni, la condizione del “cristiano che di mestiere fa il giornalista”. Allora eravamo solo in sette i cristiani “dichiarati” nella grande redazione del “Corriere”. E l’occasione furono, nell’estate del ’79 quando era già nel mirino dei terroristi, le bozze del Catechismo per gli Adulti, che l’arcidiocesi di Milano gli aveva mandato in visione. Per Walter, che andava subito all’essenziale, era indispensabile ripartire dalla sapienza delle Scritture.

 In fondo, a ben vedere, Gesù Cristo non fa programmi, non lancia messaggi: a chi gli chiede, chi fosse e cosa proponesse,  risponde soltanto con queste parole: “Venite e vedete…”. E andare e vedere, magari con l’occhio lungo e l’orecchio attento del cronista, commentava Walter col suo quieto sorriso, non è forse la sostanza ultima del nostro mestiere ?

 Non solo: proprio quelle cronache che sono attuali da duemila anni suggerivano un’altra divisa professionale. Gli apostoli non ci fanno umanamente una gran figura: non capiscono, si addormentano e scappano; e perfino Pietro, che pure era già il capo della Chiesa, non nasconde di aver rinnegato il maestro tre volte prima che il gallo cantasse. E allora la lezione che ne veniva era quella di non edulcorare, di non occultare, di non subordinare la narrazione ad occhiali o pregiudizi ideologici o compiacenti. Piuttosto esprimere fino in fondo una dote indispensabile da coltivare con rigore. Quella cioè dello “stupore”, ovvero la libertà interiore di lasciarsi sorprendere dalla realtà che si veniva ad incontrare, di raccontarla tutta, per scomoda, “dispettosa” disordinata che fosse, cercando di restituirle, attraverso l’indagine e lo scavo, forma e ordine, gerarchia e significato più autentico e profondo.

 Uno “stupore” certo, ma del tutto privo di ingenuità: semmai con il disincanto di chi aveva letto e meditato (ci era capitato di farlo insieme) le opere di Seneca e di Procopio di Cesarea sulla corruzione del potere e l’uso strumentale degli estremisti nelle corti degli imperi romano e bizantino. E tuttavia l’esercizio sorvegliato e intelligente dello “stupore” era la via per fornire al lettore e al cittadino il servizio democratico e a tutto campo dell’informazione, così che ciascuno potesse formarsi in completezza il proprio libero convincimento. E in questo percorso il giornalista andava naturalmente tutelato nella sua autentica autonomia e indipendenza. Un bisogno di civiltà che sentivano anche altri: e in questa prospettiva ci furono i ripetuti incontri con il giudice Emilio Alessandrini (che cadrà anch’egli vittima dei terroristi rossi) nella convinzione comune che era indispensabile per il tessuto democratico salvaguardare autonomia e indipendenza, non tanto delle categorie quanto del singolo operatore, che, nel suo rigore professionale e nella solitudine della sua coscienza, poteva così offrire a una società complessa e moderna il libero e cruciale servizio vuoi della giustizia e vuoi dell’informazione.

 Di qui l’impegno innovativo nel sindacato, un impegno teso a contrastare il comodo conformismo e a diffondere segni di lavoro per un cambiamento positivo, graduale e partecipato. Un cambiamento nel quale Tobagi collocava una robusta e intelligente dose di speranza testarda, davvero cristiana. La spes contra spem  diventava allora la molla segreta che presiedeva ad un impegno multiforme e spesso affannoso nel quale spendeva tutti i suoi talenti verso l’edificazione di una società migliore, come confesserà nelle lettere ai familiari. E quando il quadro sociale, la scia sanguinosa di una violenza diffusa che appariva inestirpabile, provocavano un senso di generale e rassegnato sconforto, Walter ricorreva ad un’esperienza storica che molto lo aveva colpito. (Mi scuserete qui la testimonianza davvero personale).  Erano le parole di Ludovico Montini, il fratello di Paolo VI, che a me, un tempo giovane ricercatore di storia, aveva aperto la sua casa, le sue carte e la sua memoria.

 Spiegava Ludovico Montini le loro sofferenze sotto il fascismo: “Eravamo più che convinti che non avremmo più rivisto la libertà perduta. E che la libertà sarebbe stata un dono solo per i nostri figli o per i nostri nipoti. Eppure non importava, bisognava comunque prepararsi lo stesso, formando i giovani sui valori cristiani e liberali, vaccinandoli contro la retorica pagana del regime, tenendo vivo quel tessuto di comunicazione e di cultura che era il nostro vero patrimonio…. Poi la Provvidenza aveva deciso diversamente e, riconquistata la libertà, noi eravamo pronti…”.

 Racconterà anni dopo a chi vi parla Giovanni Bazoli che il vecchio patriarca Ludovico Montini si era “battuto come un leone” tra gli azionisti per offrire la direzione del “Giornale di Brescia” proprio al giovanissimo Walter Tobagi, “dimostrando – commentava Bazoli – una lungimiranza e una levatura intellettuale che noi allora non avevamo capito…”

 Concludo con un ultimo aspetto, profondamente cristiano, di Walter che appariva già ostico a chi gli era vicino e spesso del tutto incomprensibile per molti: ovvero quel suo innocente abbandonarsi fiducioso al mistero della Provvidenza. Sentiva comunque che era breve il tempo che gli era stato dato e, pur nelle sue umanissime paure e nella lucida consapevolezza del rischio, assicurava l’intenzione di non abdicare, di non sottrarsi alla responsabilità civile alla quale il suo lavoro e il suo impegno l’avevano portato. “Non mi perdoneranno – confessava nelle ultime settimane – di aver rotto il conformismo e l’unanimismo. Sia nelle analisi sulla galassia terroristica, che cerco di capire e di penetrare invece di limitarmi come troppi a maledire e a esecrare; e sia nel sindacato che ha anche bisogno di rotture democratiche per crescere e per svolgere davvero il suo ruolo civile. E io ho il torto di aver sollevato un velo e trovando il libero consenso di moltissimi colleghi, di aver dimostrato che un’alternativa è possibile. E per questo pago anche il prezzo di una ingiusta campagna di denigrazione…”. “Ma Walter, così isolato, così esposto, non ti senti abbandonato ?” “No, Giuseppe, non mi sento solo: mi sento comunque nelle mani di Dio”.

 

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