This is the End, Tanto pe’ Cantà: la Babele del Centrodestra nel Ballottaggio dell’Anima
Nel caleidoscopio delle coscienze, mentre “The End” dei Doors sibila con voce cavernosa: “This is the end, beautiful friend, the end…”, lo spirito di Nino Manfredi dall’altro capo del tempo canta “Tanto pe’ cantà, perché me sento un friccico ner core”. Due mondi si fronteggiano: quello dell’abisso psichedelico, catartico, terminale; e quello della leggerezza esistenziale, dell’assurdo vissuto col sorriso stonato. In mezzo, un centrodestra in crisi elettorale che si aggrappa a commenti sfumati come a salvagenti bucati nel mare di Genova, Taranto e Ravenna.
Jim Morrison sventra la realtà politica come un Edipo che uccide il padre – la retorica muscolare dell’unità di coalizione – e bacia la madre – il potere, forse, o il narcisismo dell’autoreferenzialità. La perdita di Genova diventa dunque l’atto incestuoso consumato contro ogni promessa d’invulnerabilità. Il centrodestra, come un viandante in trance tra le dune della coscienza elettorale, si sveglia troppo tardi, cullato da visioni salvifiche di ballottaggi e “ampie possibilità”, come dichiarato da Gasparri, mentre attorno brucia la narrazione di una vittoria ineluttabile che non è mai esistita.
Dall’altro versante del prisma, Manfredi risponde col suo canto da sottoscala: “Nun c’è gnente de nuovo che ce pò spaventà”. E qui la crisi si svela in tutta la sua nudità: il centrodestra non ha paura, non perché è forte, ma perché ha disimparato la paura, anestetizzato da sondaggi stabili e pranzi di governo in cui la politica interna è solo un contorno. Roma è lontana da Taranto, da Matera, da Genova. Così lontana che anche Meloni preferisce le coppe di Vuitton alla coppa elettorale ormai rovesciata.
Il pranzo a Palazzo Chigi – consumato da Meloni, Salvini e Tajani mentre arrivavano i primi exit poll – è stato forse l’ultimo pasto sereno prima della tempesta. In quell’ora e mezza, si è parlato molto di politica estera, ma poco o nulla dei territori che stavano per sfuggire di mano. Il silenzio istituzionale sulla disfatta elettorale è stato rumoroso. La premier ha poi saltato il Consiglio dei ministri, preferendo la cornice scenografica della Vuitton Cup e dell’America’s Cup: metafora perfetta di un governo intento a veleggiare verso l’élite mentre il porto popolare affonda.

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Nelle note basse della cronaca, Salvini e Tajani litigano su dazi e ponti come due marinai ubriachi sull’orlo del Titanic, mentre il violinista continua a suonare. L’orchestra? Silente. L’elettorato? Confuso. La democrazia locale? Un fastidio da minimizzare. L’appello è a “non drammatizzare”, come ripetuto da Lupi e Donzelli, ma lo sguardo resta fisso su Genova, dove il caso Toti non è stato mai davvero gestito, e su Taranto, dove il candidato appoggiato dalla Lega e da Vannacci ha surclassato quello di FdI e FI. Un segnale, questo, che non è solo locale.
Eppure, in questa dialettica impossibile tra Doors e Manfredi, sta il cuore del fallimento: il centrodestra non ha più né l’abisso interiore né la leggerezza poetica. Non sa gridare “The end” né canticchiare “E quanno canto so’ più felice e so’ più bonu”. Rimane in un limbo di dichiarazioni stanche e sorrisi obbligati, come se bastasse cambiare i candidati per fermare la deriva. E mentre si cercano “ampie possibilità” nei ballottaggi di Ravenna o Matera, la strategia nazionale inizia a mostrare crepe che si aprono nei territori, dove la gente chiede presenza e coerenza, non solo slogan da convegno.
A Genova, la sconfitta è stata un paradosso annunciato: troppa sicurezza, troppe mani alzate a preannunciare una vittoria che non c’è mai stata. A Ravenna, roccaforte rossa, il colpo era previsto, ma a Taranto e Matera il vento doveva cambiare, e invece è rimasto fermo. E ora? Il Veneto incombe come spartiacque. Una debacle lì potrebbe diventare il vero campanello d’allarme, quello che oggi si nega esista. Intanto, dietro le quinte si ricomincia a parlare di legge elettorale, come se il problema fosse la regola del gioco e non il giocatore confuso.
Se Edipo si acceca alla fine del mito, e Manfredi ride mentre la casa gli crolla addosso, forse ai leader del centrodestra servirebbe ascoltare entrambi. Riconoscere l’oscurità, accettare il caos, e intanto – perché no – cantare. Ma non tanto pe’ cantà, stavolta: per cambiare spartito. E magari ricordarsi che le note vere si suonano nei territori, non nei vertici.