Storie locali, storie d’archivio

Storie locali, storie d’archivio

La storia locale si prende cura soprattutto dei periodi mitici, leggendari, possibilmente lontani. Compaiono tracce celtiche, liguri, romane, longobarde o bizantine. Poi c’è un medioevo ricco di cavalieri, marchesi e orde di saraceni

Storie locali, storie d’archivio

La storia locale si prende cura soprattutto dei periodi mitici, leggendari, possibilmente lontani. Dalle nebbie dei secoli compaiono tracce celtiche, liguri, romane, longobarde o bizantine. Poi c’è un vasto medioevo ricco di cavalieri, marchesi e orde di saraceni. Da qui si salta spesso a piè pari alle campagne napoleoniche fermandosi prima della restaurazione.

Eppure i nostri archivi sono pieni di storie, pieni di vicende minime incastrate e trascinate dal flusso della Storia Grande, di quella narrata nei grossi libroni dai grandi saggisti, o nei libri di scuola.

Ci sono gli archivi comunali e quelli parrocchiali, talvolta anche molto datati. C’è l’Archivio di Stato, prezioso scrigno dove tutto o quasi confluisce. Ci sono archivi privati più o meno noti, archivi d’impresa talvolta riordinati, talvolta dispersi. Ci sono anche gli archivi dei plessi scolastici, praticamente inediti, dove, a partire dalla riforma Gentile (1923), gli insegnanti erano tenuti a scrivere in prosa, a narrare con passione, dunque, tutte le attività e i problemi riscontrati nel borgo, nella cittadina, nella scuola rurale dispersa tra i boschi, durante il periodo d’insegnamento.


Gli archivi sono pubblici, questo vuol dire che (nei limiti previsti dalla legge) sono consultabili liberamente. E da qui dovrebbe partire ogni attività di chi per passione si dedica alla Storia Locale.

Mi piace qui riportare una piccola traccia, una serie di fredde informazioni reperite in una anagrafe in Valle Bormida, mentre cercavo altri dati.

Questa storia nasce da un atto di nascita in cui si attribuisce d’ufficio il nome di Carlo Agosto (nome di fantasia) al bambino nato in un giorno del 1926. La madre fa dire all’uomo che si presenta in comune, che non riconosce il bambino. Lo dota di ricambi e copertina e lo affida all’uomo che si è appena presentato al segretario comunale, facente funzioni di ufficiale allo stato civile.

Per inciso: in quegli anni i bambini abbandonati dalla madre erano assai frequenti. Non essendoci praticamente contraccezione, essendo la condizione femminile tale per cui anche in caso di violenza non si sarebbe potuto immaginare alcuna azione contro il padre, era pratica consueta, dopo il parto, affidare il neonato alle istituzioni.

E infatti l’ufficiale di Stato Civile invia a Savona, all’orfanotrofio provinciale, il bambino, accompagnato dalla persona che l’ha presentato in comune.

Accanto all’atto di nascita c’è però un appunto, vergato in altra grafia. Dice che per mezzo di un ricorso presentato con l’ausilio di un notaio la signora Anna (nome di fantasia) ha presentato richiesta di riconoscimento del bambino nel 1928. Non si fanno poi troppe indagini: i soldi per l’orfanotrofio sono sempre troppo pochi, e la donna è disposta a mantenere il bambino.

Da qui si può indagare la storia della madre, nata in una borgata ora disabitata nel 1910. Quindi a soli 16 anni s’è ritrovata madre. Non so pensare con quale scandalo e quale disonore per la famiglia, nonostante la porcata (come immaginiamo) l’abbia commessa il padre, vaporizzatosi subito dopo.

Di Anna sappiamo, attraverso l’archivio, che nel 1927 è stata assunta come operaia presso la fabbrica di pellicole F.I.L.M. di Ferrania.

La carta comincia a raccontare involontariamente qualcosa. La ragazza, nata in campagna da famiglia povera e contadina, forse figlia di mezzadri, famiglia numerosa, tante bocche da sfamare, si porta a casa un bambino in grembo, un “figlio della colpa”, come si diceva una volta.


Le fabbriche cambiano le prospettive di vita di tanta gente. Anche se una persona non è troppo istruita, anche se non ha conoscenze specifiche, magari con l’aiuto di un amico di famiglia, magari dal parroco, trova posto in fabbrica. Ecco un forte segno di emancipazione: la donna, maggiorenne, assurge a produttrice di reddito: lavora e ottiene una (pur misera) paga. Quindi una identità nuova, una nuova dignità, che le permette di andare da un notaio (quindi di poterlo pagare) e “fare le carte” per tornare in pieno diritto madre di quel bimbo abbandonato pochi anni prima. Anna si trasferisce a Ferrania, poco lontano del suo posto di lavoro. Lei ed il suo bambino. E non ha bisogno di altro (per ora, leggiamo sullo stato di famiglia) non vive con nessun altro.

Vien da pensare che le grandi rivoluzioni sociali dipendono soprattutto dalle condizioni economiche. Proprio durante il fascismo si ribadirà il concetto per cui la donna è “La regina della casa”, fattrice di bambini futuri soldati. Ora ricevere uno stipendio fisso vuol dire abitare in casa propria, mangiare con una certa regolarità, curarsi, scegliersi i vestiti e soprattutto potersi permettere di crescere il proprio figlio addirittura da sola, essere sola per scelta. Ancor più, infine, la cosa maggiormente rivoluzionaria e destabilizzante: la donna che lavora può scegliere lei il compagno che l’aggrada, e forse può addirittura cambiarlo.

Tutte queste novità sono in fortissima contraddizione con le consuetudini rurali, in cui la donna trovava la sua dignità solo all’interno di uno schema molto chiaro, consuetudini antiche e accettate che nessuno avrebbe potuto sovvertire o mettere il discussione.


 

Ricordo bene che a una mia zia (classe 1913) fu severamente impedito di andare a lavorare in fabbrica da sua madre, perché, le diceva: “Quelle che lavorano in fabbrica sono tutte bagasce!”.

Torniamo all’atto di nascita del piccolo Carlo. C’è un’altra annotazione che porta all’atto di morte, registrata il 14 aprile del 1945. Periodo fatidico per la Storia d’Italia. Si può allora cambiare registro, e cercare nelle pagine in-folio del librone degli atti di morte.

Su decreto del tribunale del 1986, a seguito del lavoro di una commissione incaricata di riordinare e ricercare ancora dati mancanti sui caduti durante il periodo bellico, si può scoprire che il “nostro” Carlo Agosto, marinaio arruolato nella Repubblica Sociale Italiana, X squadriglia MAS, battaglione Risoluti, è scomparso il 14 aprile 1945, a Genova, in territorio metropolitano.

A 19 anni si arruola, parte evidentemente volontario in una delle squadriglie (la tristemente nota “decima” con il suo comandante Junio Valerio Borghese) e uno dei battaglioni più significativi, il “Risoluti” fondato dal capo di prima classe Felice Botero. Reparto che sarà utilizzato con compiti di guardia, ma anche di guerriglia antipartigiana sulle alture di Genova.

Carlo è un fascista, sa bene dove schierarsi e vuole partecipare al conflitto attivamente. Quasi sicuramente ha vissuto il ventennio immerso nella retorica, nei canoni educativi, ma ancor più in un ambiente (quello della fabbrica, del borgo operaio, del dopolavoro) dove il regime mostrava il suo volto più accattivante, quello delle manifestazioni di piazza, delle divise e dei labari, delle attività extralavorative del dopolavoro: dal cinema, agli sport, alle gite.


Junio Valerio Borghese

 

La fabbrica e il duce volevano occuparsi in toto dell’operaio-soldato: dalla culla alla tomba, nei momenti di svago o di lavoro, persino nelle scelte famigliari (celibato e discendenza). Ecco, Carlo, liberato dalla madre emancipata, dalla fabbrica e forse (chissà) grazie all’interessamento di un qualche fascista locale, era cresciuto immerso in questa retorica e in questi fatti, costruendo forse una precisa rete di amicizie che gli hanno suggerito come schierarsi al tramonto del regime. E soprattutto deve essere stata una scelta facile, impulsiva, risoluta come il nome del battaglione del quale andava a far parte.

Mi è difficile immaginare l’emozione della madre, a veder partire volontario quel suo figlio che era riuscito a riscattare, riscattando sé stessa. E forse, non lo sappiamo, ne sarà stata magari anche orgogliosa. E quando dura deve essere, per una madre, ricevere la notizia della morte del figlio. E quanto ancor più dura deve essere, non ricevere nessuna notizia, ed aspettare, aspettare a tempo indeterminato che giunga una lettera, una foto, una traccia. Poi, dopo tanti anni, ritrovare nei duri documenti di una commissione, di un tribunale, una conferma sempre avvertita e mai accettata.

Anna doveva avere una grande forza d’animo e una buona nomina: continuò a lavorare a Ferrania, si sposò e restò ancora vedova arrivando poi fino alla pensione, proseguendo la sua vita con la dignità che gli aveva permesso di vivere da “ragazza madre” in quegli anni così difficili.

Mi sono permesso di interpolare i pochi punti certi di questa storia, perché e solo perché non ho niente da dimostrare. Non ci sono giudizi morali. C’è, per parte mia, la compassione per le persone, le loro scelte, le loro vite subite o volute. Le piccole tracce che grandi tragedie hanno lasciato, appena leggibili, solo accennate in un registro In-folio di un piccolo comune della nostra provincia.

ALESSANDRO MARENCO

 

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