Sovranisti e disfattisti
Sovranisti e disfattisti
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Sovranisti e disfattisti
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Che cosa ha spinto Theresa May e 17 milioni e mezzo di inglesi a uscire dall’Europa? L’interesse del Regno unito, of course, che, per altro stava a cuore anche a quelli che in Europa ci volevano restare. E perché Macron, che pure è una creatura dei mercati e della finanza globale, interpreta la parte di Pétain alla corte del nuovo Führer ritagliando per sé un modesto ruolo di comprimario? È lo sciovinismo francese, che si deve adattare ai tempi. E la Merkel ha una visione della Germania tanto diversa da quella dell’ex caporale coi baffetti? Trump e Putin, ciascuno a suo modo, hanno fatto leva sull’orgoglio dei loro popoli e, soprattutto il primo, non si perita a proclamare che il suo scopo non è la pace nel mondo o l’affrancamento di popoli oppressi ma l’interesse del popolo americano. E in nome di quale valore si sono stretti la mano Kim Jong-un e Moon Jae-in se non l’amore per la comune patria? Mai come in questo decennio del ventunesimo secolo gli Stati nazionali si sono così scopertamente adoperati in ordine sparso nella difesa dei propri interessi. Il vecchio Hobbes sorride compiaciuto.Emai come in questo decennio il popolo sovrano in ogni Paese smania per sottrarsi al giogo dei potentati sovranazionali. Nonostante il fiume di retorica che cerca di sommergere identità e orgoglio nazionali, l’unica voce concreta e saldamente fondata contro la sovranità e i particolarismi è quella dei particolarissimi interessi dei poteri economici sovranazionali, che poi non si risolvono in concetti astratti ma corrispondono a qualche decina di individui in carne e ossa e ai loro servi sparsi un po’ dappertutto. Chi è fuori della rete che questi hanno steso sul pianeta, ad ogni livello ed ognuno con la propria funzione, persegue obiettivi racchiusi nel recinto della propria realtà nazionale; tutto il resto è chiacchiera. Chiacchiera e malafede, quella di chi spudoratamente sostiene che la presenza di limitazioni alla sovranità nazionale è una garanzia per la pace mentre non c’è stato un giorno nei decenni seguiti alla fine della seconda guerra mondiale che non abbia visto in buona parte del pianeta un continuo accendersi di nuovi focolai di guerra, direttamente o indirettamente attizzati da quegli stessi che quelle limitazioni hanno imposto.
I servi che compongono la rete della globalizzazione sono cellule silenti di una potenza straniera, spesso situati su fronti opposti e infiltrati nei gangli più delicati del potere politico e dell’informazione. In un complesso gioco delle parti la dialettica politica e l’alternarsi dei governi si sono risolti all’interno dei limiti loro assegnati e si sono accomodati agli interessi e alla volontà di quei poteri sovranazionali. Chi, come Orbán, non l’ha fatto è stato isolato, minacciato e infine tollerato ma messo in condizione di non nuocere, stante anche lo scarso peso economico e politico dell’Ungheria. Ma ora che il vento populista comincia a soffiare impetuoso in tutto il continente e che con la nuova Lega si profila il rischio che l’Italia, ventre molle dell’Europa, recuperi il suo nerbo e sollevi la testa scombussolando gli equilibri dell’Unione, quelle cellule silenti escono allo scoperto e si schierano su un unico fronte. Feltri e Sallusti dimenticano l’antica rivalità, Belpietro ritorna all’ovile e tutti quanti uomini e donne del centrodestra, dal bilioso Brunetta alle belle signore che fanno corona al Cavaliere, tutti parlano improvvisamente la stessa lingua dei compagni, degli editorialisti dei giornaloni, perfino del vecchio e del nuovo direttore del Fatto, spiazzati dall’avverarsi di quella che non era una profezia ma ciò che qualunque mente pensante sapeva che prima o poi doveva necessariamente accadere: lo smascheramento del regime, lo strappo del velo che per troppi anni ha coperto il marcio della politica, il gioco perverso sulla pelle del Paese, il teatrino che Berlusconi aveva denunciato salvo poi entrarne a far parte anche lui. Qualcuno come Taradash, uno che, giustamente, in pochi ricordano, uno che è stato prima radicale, poi forzista poi non si sa che cosa e infine richiedente asilo sotto l’ala del Pd, ha letteralmente perso la testa ed ha pubblicamente auspicato che Salvini e Di Maio vadano a spalare m…Me lo ricordo a Roma, nel 2008, a manifestare con Lega e Forza Italia contro il governo Prodi. Ne ha fatta di strada. Ma la nuova, e naturale, alleanza non solo ha messo a nudo le false opposizioni e l’autentica consorteria destra-sinistra-centro, non solo ha fatto cadere tante maschere, ma ha scatenato una rabbia incontrollata negli euroburocrati e nei loro lacchè annidati nelle redazioni di tutta la nostra stampa. E, se ce n’era bisogno, è stata questa la migliore credenziale per Lega e Cinquestelle. Almeno per quello che mi riguarda sono proprio gli attacchi isterici interni ed esterni che mi hanno convinto ad una apertura di credito al movimento, che, considerata la caratura dei suoi esponenti più in vista e le sparate bizzarre di Grillo, mi sembrava una versione minore ed evanescente di populismo. Populismo al quale guardo con speranza e simpatia per quanto considero con disprezzo le autoproclamatesi élites. Attrici e signore snob dal dubbio passato, cantanti e giocatori di pallone, cattedratici senza titoli di qualche rilievo, per non dire di romanzieri semianalfabeti, tutti convinti di essere la crèmedel Paese, si sentono in pericolo sulla zattera del Pd che sta colando a picco e vedono con terrore una televisione senza le loro facce, i giornaloni senza le loro sentenze e le loro interviste e l’inaridirsi del flusso di denaro pubblico nelle loro tasche. Una sciagura per loro il voto popolare, una sciagura per le acide professoresse spedite in parlamento dal partito moribondo, una sciagura per quanti si sono finora abbuffati alla grande torta della Tv pubblica. E prima in modo schivo e sommesso poi sempre più scopertamente si arriva a sostenere che il voto popolare è in sé pericoloso, ha dato vita a regimi orribili (ci si deve decidere: orribili perché negavano la libera espressione del voto popolare o perché ne erano il prodotto?) e poi, alla fin fine, “il popolo non capisce nulla”. Qualcuno, più pensoso, con l’aria di chi fa una grande concessione, è arrivato a riconoscere che se gli Italiani si sono espressi a favore dei partiti “populisti” bisognerà in qualche modo tenerne conto e considerare la possibilità che a quei partiti tocchi di guidare il Paese. Con juicio, però, sotto stretta sorveglianza, e che non facciano deragliare il treno sul quale lor signori sono comodamente seduti. E non si azzardino a pensar male dell’Europa e vedano di cancellare dal loro contratto espressioni sospette come “sovranità”, “nazione” o “interesse nazionale”. Purtroppo, almeno nell’immediato, il pieno recupero della sovranità monetaria è una chimera e l’implosione di Bruxelles, anche se inevitabile, non è imminente. Ma questa consapevolezza non deve impedire che si realizzino provvedimenti immediati e concreti di tutela dei cittadini italiani, del loro lavoro, della loro tranquillità economica, della loro salute, della loro sicurezza. Tantomeno deve impedire che si salvaguardino e si rinvigoriscano le loro radici, la loro identità, la loro lingua e la loro tradizione. La vergogna di un primo ministro tedesco che in una sede ufficiale parla tedesco, quello francese parla francese e quello italiano inglese (seppure maccheronico) non deve ripetersi. C’è bastato Draghi che ormai quando parla la sua lingua materna incespica sulle parole. La vergogna di un’Europa diplomaticamente unita in cui Macron parte per la guerra senza che nessuno rifiati non deve ripetersi. E che non avvenga più che una nave che batte bandiera spagnola o svedese ci scarichi addosso il suo carico di clandestini. Fin che dura questa Europa, e io credo che non durerà a lungo, si rispetti almeno la forma. Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione |