Se son matti non li vogliamo

Se son matti non li vogliamo
Il ricovero di un “diverso” (non occorreva essere effettivamente matti, bastava essere inquietanti, portare disturbo, disordine) era un bel modo per risolvere un problema a tutta la società

Se son matti non li vogliamo  

 Passeggio in un viottolo fra le ville. È una strada aperta al traffico, ma di qui passano pochi veicoli. Ogni villa ha il suo giardino: fiori, piante, fontanelle. Talvolta cani rabbiosi che sconsigliano cordialmente di avvicinarsi al recinto.

A voce alta, dalla mia sinistra, arriva un: “Ciao” pronunciato ad altissima voce. Rispondo per riflesso, prima di voltarmi. Poi guardo: su un ballatoio di fronte all’ingresso di un casa, ci sono tre persone, uomini, sulla quarantina. Uno ride, sdentato, seduto. Un altro ha il viso lungo e stupefatto, un terzo mi sembra un po’ arrabbiato, non troppo alto e scuro di capelli e nel volto.

“Oggi è una bella giornata”, mi dice quello lungo. “Si ― confermo ― proprio bello. Da godersela passeggiando”. “Allora arrivederci” conclude il lungo. Proseguo nella mia camminata.

La casa che ho appena visto è una struttura di proprietà della diocesi, gestita da una onlus, che ospita persone con disabilità varia. Alcuni sono molto socievoli, altri sono molto timidi, però hanno trovato una sistemazione, un nido, una casa nel senso più affettivo del termine. Che io sappia, ognuno vive per suo conto, secondo i suoi gusti e le sue inclinazioni, ma sottoponendosi ad un regolamento comune che consente loro di convivere dignitosamente.


Più di cinquant’anni fa la situazione sarebbe stata leggermente diversa. C’erano allora i manicomi, o per meglio dire gli ospedali psichiatrici. La persona con un comportamento inconsueto, esuberante, indifferente, o che comunque portava un qualsiasi tipo di disturbo alla società, era da curare. Ma non c’era cura per chi era “diverso” e quindi occorreva semplicemente reprimere o recludere il malato, nell’attesa della guarigione, o di un certo (improbabile) miglioramento.

Nei nostri archivi comunali esistono i faldoni in cui sono raccolti i verbali di ricovero dei medici condotti: tanto bastava per finire a Volterra, a Cogoleto, a Cuneo. Se necessario doveva intervenire la forza pubblica che bloccava e trasferiva forzatamente il mentecatto.

Tanto i verbali dei medici che la corrispondenza dagli ospedali psichiatrici rappresentano un corpus di documenti poco studiati a livello locale, ma sempre toccanti, inquietanti, tragici, come spesso sono i papiri figli della burocrazia, secreti dal male e dal buio, come se anche questi si potessero amministrare e con questo ricondurre a raziocinio.


Raramente un ammalato tornava. Più di sovente il “matto” finiva ricoverato nel gorgo della disperazione, della malattia e della solitudine. Ricordiamo che gli stessi psichiatri e infermieri psichiatrici non avevano a disposizione altro se non mezzi di contenimento o terapie sconvolgenti (elettroshock, shock insulinico, letto di contenzione, bagni freddi).

Più semplicemente il ricovero di un “diverso” (non occorreva essere effettivamente matti, bastava essere inquietanti, portare disturbo, disordine) era un bel modo per risolvere un problema a tutta la società. Ucciderlo sarebbe stato immorale, meglio allora sequestrarlo, carcerarlo in qualche modo. Imporgli terapie e procedure anche contro la sua volontà. Perché si considerava il matto una persona non in grado di decidere per sé, e di essere un danno potenziale agli altri.

L’avvento degli psicofarmaci ha cominciato a cambiare le cose. Ma soprattutto si è andato concretizzato quel che da tempo alcuni psichiatri pensavano: che il matto non è un malato, che se anche lo fosse, non si può risolvere solamente recludendolo, cancellandolo dalla vista della società. In Italia abbiamo avuto Franco Basaglia, che per primo ha lottato per aprire i manicomi. Il suo progetto era semplice e attuabile, ha trovato la sponda politica necessaria per essere messo in atto, e, sia pure nelle molteplici difficoltà, ancora attuali, sia pure con gravi mancanze, difetti, migliorie da realizzare, i matti non sono più reclusi. Soprattutto non sono matti. Abbiamo scoperto (chi presta attenzione) che vivono fra noi, non solo nella casa-famiglia che ho descritto sopra, ma dappertutto. Che forse un poco lo siamo anche noi, e che non per questo abbiamo bisogno di cure, o di essere ricoverati in un manicomio. Come sempre, tocca dirlo, ci sono delle responsabilità amministrative, e perciò politiche, nell’attuazione di questo progetto. Molte regioni sono ancora in ritardo, mancano strutture, ambulatori, consulenti, assistenza domiciliare, centri di igiene mentale. Tutto ha un costo, e come sappiamo fin troppo bene, ci sono finiti i soldi, non si può fare, ci sono cose più importanti, come finanziare un torneo di golf (LEGGI).

In ogni caso i ragazzi che mi hanno salutato durante la passeggiata (e che non è detto siano “matti”, ma semplicemente timidi o estroversi) non sono sepolti vivi e legati a un letto. Perché c’è da ricordare che dopo un decente periodo di ricovero in certe vecchie strutture, se uno non era matto, lo sarebbe diventato senz’altro. E quindi, destinato all’oblio, buttato sotto il tappeto come la polvere che si vuole nascondere. Ma, anche da matto, la sofferenza e la solitudine, l’uomo la sente lo stesso.


Ricordo di aver letto una lettera datata 1945, del podestà di un paese della Val Bormida, che chiedeva notizie al direttore del manicomio di Volterra, circa un concittadino ricoverato là alcuni anni prima. Le informazioni servivano per compiere gli atti di successione, visto che erano mancati i genitori. Senza imbarazzo, il direttore aveva risposto che il menzionato in oggetto era morto da alcuni anni. Questo scambio di lettere ci comunica tutto il senso della tragedia di chi discende nel gorgo istituzionale, e non ne fa ritorno e nessuno lo cerca più: cancellato dalla memoria del mondo.

Attualmente le cose sono ancora risolte: chi si trova a gestire nella solitudine della famiglia uno schizofrenico conosce il calvario a cui talvolta è lasciato dalle istituzioni.

Ai tempi della approvazione della Legge Basaglia alcuni giornalisti gridavano al disastro: torme di mentecatti pericolosi avrebbero camminato al nostro fianco, pronti a ghermirci, a ucciderci imprevedibilmente. Altri avrebbero commesso chissà quali vituperi, zozzerie, nefandezze, riducendo i nostri paesi, le nostre stesse case ad un orrore senza nome, dal quale mai ci saremmo sollevati.

Mi par quasi di riconoscere, nei toni, nei tempi e nei modi, gli stessi giornalisti urlare di invasione, di guerra di civiltà, di orribili delitti commessi da compagini di uomini neri, impuniti, selvaggi. Anche loro realtà da nascondere, polvere sotto il tappeto per la nostra società, da recludere, da rigettare nuovamente da dove sono venuti. Perché ci danno fastidio, perché corrompono il nostro modo di vivere lindo, pulito e giusto. Perché le tasse non le paghiamo per loro (ma per un torneo di golf?), perché non meritano tutto questo. Perché NOI siamo diversi. Così diversi che finiremo per essere matti, e reclusi in un manicomio, perfetto e pulito, tutti ordinati e precisi, ognuno con il suo compito e il suo destino.

ALESSANDRO MARENCO

 

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