Se le prove Invalsi certificano l’ignoranza di massa

 
Se le prove Invalsi certificano
l’ignoranza di massa
Dalla scuola di Barbiana alla Buona Scuola: l’itinerario nel nulla

 Se le prove Invalsi certificano l’ignoranza di massa

Dalla scuola di Barbiana alla Buona Scuola: l’itinerario nel nulla

Si dirà: meglio tardi che mai la stampa italiana si è accorta che il livello dell’istruzione nel nostro Paese è preoccupante. Per ora si parla dei licei, mi auguro che presto si posi lo sguardo anche sulle università. Ma c’è qualcosa che non mi convince nell’improvvisa attenzione che i giornaloni dedicano alla scuola e avverto un che di stonato nelle loro geremiadi.  Si stracciano le vesti perché hanno scoperto che i nostri ragazzi alla fine del ciclo di studi secondari sono incapaci di comprendere un testo scritto, in italiano, s’intende; che incontrano difficoltà in matematica fino al limite della discalculia, che i pochi che spiccicano qualche parola in inglese lo devono a soggiorni all’estero.


Tutte cose arcinote da tempo, denunciate in tutte le sedi da cassandre inascoltate, aggravate negli ultimi decenni dalle trasformazioni del costume, da un pedagogismo irresponsabile, da una sperimentazione senza capo né coda. L’attacco pervicace alla scuola di classe, alla scuola gentiliana, alla cultura borghese, iniziato nell’immediato dopoguerra, rinforzato dal donmilanismo imperversante dai primi anni Sessanta e aggravato negli anni della contestazione, con sullo sfondo il leit motiv martellante della riforma, hanno reso traballante un edificio  sul quale si è poi accanita a colpi d’ariete la “buona scuola” renziana. E se i compagni della prima ora avevano in mente un modello (in realtà ne avevano più d’uno) e consideravano l’istruzione uno strumento di liberazione per le classi subalterne, i loro epigoni all’amatriciana non hanno nessun modello da proporre perché il loro unico obbiettivo è l’ottundimento di massa: semplicemente hanno paura  che la “ggente”  pensi autonomamente, si sottragga all’imbonimento, attinga a fonti che sfuggono al loro controllo. Quindi la scuola come parcheggio e dominio della chiacchiera (Gerede).


Prima si distrugge la scuola, si riduce l’insegnamento a fuffa e si fa dell’insegnante un operatore scolastico, come dire un bidello piazzato dietro la cattedra, poi si constata che il popolo bue non ha strumenti per giudicare e si può tranquillamente concludere che il voto popolare è solo una finzione, una messinscena, qualcosa che vale solo se si riesce a pilotarla perché altrimenti produce disastri. E sornionamente l’opinionista di turno accenna al Duce e all’avvento del nazismo.

Se l’enfasi dei giornaloni è sospetta e interessata non per questo si deve concludere che il problema non esiste, perché esiste eccome. Però va ricondotto alle sue giuste dimensioni e soprattutto occorre identificarne l’origine se si pretende di risolverlo. Intanto va riconosciuto che comprendere un testo scritto non è per niente un’operazione banale. È al contrario una competenza complessa, che non si acquisisce automaticamente con l’alfabetizzazione.  Saper leggere non implica necessariamente capire ciò che si legge anche se il testo è scritto nella lingua materna. L’insegnante elementare ha il privilegio di guidare i bambini al miracolo della comprensione, che comporta l’attivazione di reti neurali in differenti distretti cerebrali, interessa fibre sensoriali e motorie e  il loro rapporto con i centri superiori di elaborazione e controllo. Di norma i bambini escono dalla scuola primaria capaci di leggere e riferire su un testo relativamente semplice. I guai cominciano dopo, alle scuole medie e soprattutto nei licei. Ci sono materie particolarmente esposte al rischio di ostacolare il processo di comprensione o di rinforzare il falso apprendimento e la comprensione ad un livello semantico di base. Ho in mente le pagine di un celebratissimo manuale di pedagogia: parole come musica, puro suono, flatus vocis.  Ma la generalità dei manuali di filosofia, fitti di pseudoconcetti, di allusioni, di ammiccamenti al nulla, di presupposti non formulati, allontanano anche i più intelligenti e meglio intenzionati  e inculcano l’idea che la filosofia sia una cortina fumogena che copre il pensiero o un’insalata di parole uscita dalla bocca di un paziente affetto dalla sindrome del lobo frontale. E arriviamo al punto.


Che da almeno mezzo secolo sia in atto la deriva del sistema formativo italiano lo sanno tutti quelli che si occupano di scuola. La sciagurata riforma della scuola media, imposta, tanto per cambiare, dalla sinistra che allora era tutta tesa a smantellare le scuole di avviamento al lavoro, fu l’inizio di uno smottamento generale. Poi l’attacco al latino, strumento di discriminazione classista, arma contro i figli dei lavoratori, reazionario, passatista, spreco di energie. Pochi e inascoltati furono, fummo, gli insegnanti che videro nello straordinario successo delle “Lettere a una professoressa” il segno di una malattia mortale che stava colpendo la scuola e la società italiane. Perduta la credibilità degli studi classici, negata la loro efficacia formativa e la loro funzione identitaria, i licei persero la loro ragion d’essere.


Avere rafforzato insegnamenti considerati più “utili” come la fisica, la matematica o le lingue straniere non servì a niente: impostazioni didattiche sbagliate, indifferenza e insofferenza nei confronti di una tradizione consolidata, la pretesa di considerare la scuola, che è per sua natura conservativa, un propulsore del cambiamento, hanno prodotto un disastro. Terminata la scuola la generalità dei nostri giovani, e degli adulti formatisi dopo gli anni Settanta, non spiccica una parola di inglese (figuriamoci nelle altre lingue comunitarie), per le conoscenze scientifiche regredisce immediatamente alle koinài ènnoiaie, quel che è peggio, non mostra alcun interesse per la nostra letteratura e in generale per la lettura. È stato un lungo processo di progressivo deterioramento, acceleratosi nell’ultimo decennio.


I risultati sono sotto gli occhi di tutti: ragazzi storditi, indifferenti a quello che accade intorno a loro, presi nella spirale di un divertissement ripetitivo e deludente, centrati sulla fisicità e incapaci di andare oltre i margini edonistici e ricreativi della cultura nazionale. Quelli fra di loro che si sottraggono alle mode, e ce ne sono tanti, vivono isolatamente la loro formazione culturale e intellettuale perché i luoghi di aggregazione cari alla sinistra lasciano il tempo che trovano, quando non si risolvono nel mondo opaco dei centri sociali e del conformismo fintamente antagonista. Il punto è che il collettivo non promuove ma deprime quando lo stare insieme non nasce da un bisogno di confronto e di dialogo ma dalla semplice condivisione di stile di vita e dalla paura della solitudine. Non è sempre stato così. Ricordo bene le interminabili conversazioni sui massimi sistemi e la passione politica, una politica alta, lontana dalle stanze fumose dove si consumano intrallazzi e si spartiscono fette di potere.


E  se allora ribolliva nella mente dell’adolescente un’ideazione resa febbrile da un eros faticosamente represso e gli anziani si chiudevano nel quieto vivere delle loro certezze oggi capita sempre più spesso che siano proprio i vecchi a porsi domande e a cercare risposte dopo essersi scrollati di dosso la cappa di piombo del conformismo, forti non solo degli  strumenti che proprio la scuola ha fornito loro ma anche delle tecnologie informatiche che vanificano la disinformazia dei media di regime. Insomma è fisiologico che i giovani guardino dall’alto in basso la generazione dei loro padri, è il motore della storia e della cultura. Oggi non accade, queste tappezzerie di carne damascata – rubo l’espressione a Veneziani – sembrano fatte apposta per chi proclama l’abbattimento dei confini e la melassa multiculturale in nome di un incretinimento, o, se si vuole, gretinismo, globalizzato.

   Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione

 

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