Se la guerra è un’opzione impossibile
e gli eserciti servono solo per mostrare i muscoli
Qualche sera fa un anonimo politologo – specie in crescita come erbe infestanti – sentenziava che con l’approssimarsi delle elezioni europee i partiti devono fare i conti con i pacifisti. L’ha detto come se si trattasse di una lobby minoritaria e disturbatrice all’interno di una cornice politica in cui la guerra è un’opzione su cui discutere per valutarne tempi modalità e rischi. Sembra di essere tornati indietro di tre secoli quando nelle cancellerie si giocava a scacchi con i confini e con le alleanze e le guerre erano una faccenda privata fra teste coronate. L’ “inutile strage” del 1914 col tragico seguito di trentacinque anni dopo e il suggello di Hiroshima e Nagasaky sono scomparsi, dissolti come un brutto sogno e non c’è traccia dell’implicito ma ferreo patto per cui la guerra fredda non poteva diventare calda. Ma il nostro politologo vive in un’altra dimensione temporale. Non è così per Concita de Gregorio, che nel suo universo cognitivo comprende l’eventualità di un conflitto nucleare nel quale dà per inteso che l’Italia sarebbe direttamente coinvolta; se si dovesse verificare quello che la sgomenta è la prospettiva di Vannacci con responsabilità di governo. Da non credere.
La crisi di Cuba segnò il punto di maggiore tensione fra Stati Uniti e Urss ma a ricomporla non furono né l’intelligenza di Kennedy né il buonsenso di Krusciov: fu lo spettro dell’arma atomica di cui l’opinione pubblica americana ed europea iniziò finalmente a prendere coscienza dopo anni di apatica indifferenza. A distanza di tanti anni con Stoltenberg che pare l’incarnazione del generale psicopatico del film di Kubrik l’umanità occidentale sembra ricaduta nella medesima rassegnazione stuporosa senza che ci sia un dottor Stranamore che gli dia una sferzata.
Il problema è che, tolto il direttamente interessato Putin e, in casa nostra, il Salvini dimezzato che se fosse coerente e in buona fede farebbe saltare il banco, non solo non c’è nessuno fra quanti hanno il potere di farsi sentire che gridi a squarciagola che il segretario generale della Nato è un caso psichiatrico – lo fa Travaglio, ma la sua ossessione per Berlusconi gli fa perdere ogni credibilità – ma tutti, politici, giornalisti, intellettuali lo prendono sul serio e legittimano il sospetto di un commune sentire bellicista dell’Occidente atlantista che comprende chi tira i fili di Biden e pressoché tutti i governanti europei, Meloni in testa (la sua cautela preelettorale non inganna nemmeno un allocco). E non a caso i media italiani, a cominciare dalle televisioni governative, martellano tutti i giorni e a tutte le ore sulla sofferenza dell’Ucraina, sull’avanzata russa, sulle stragi di civili a Kharkiv (poco più di una decina, meno di quanti gli ucraini ne abbiano deliberatamente ammazzati a Belgorod, in Crimea e nel Donbass russofilo e quando, tanto per dare significato concreto alle parole, gli israeliani in un solo giorno ne fanno fuori mille di più), su Zelensky che ha le mani legate (ma le mani legate ce le hanno – per fortuna – i russi per il legame storico e culturale col popolo ucraino) eper convincere l’opinione pubblica che l’integrità ucraina è vitale per l’Europa, che la guerra ucraina è la nostra guerra e che gli ucraini debbano essere dotati di armi per colpire al cuore Mosca e costringerla alla resa. Ma, aggiungono, la Russia come un animale ferito reagirà rabbiosamente e già si prepara a metter mano al suo arsenale nucleare. E quindi, questo è il messaggio nemmeno tanto subliminale, bisogna anticiparla e colpire per primi. Ed ecco le Concite che l’hanno prontamente recepito e discorrono tranquillamente di un conflitto nucleare col solo pericolo che ci sia un Vannacci che tenta di impedire che si prema il pulsante.
I media hanno diligentemente assolto al compito di far credere che la guerra, non quella per procura di cui gli americani sono maestri, sia un’opzione praticabile anche nell’era atomica, quando il pacifismo non ha più senso semplicemente perché una prospettiva bellicista deve essere aprioristicamente esclusa. Il che non implica necessariamente la fine degli eserciti, degli armamenti, dell’industria bellica. Personalmente ho il massimo rispetto per gli antimilitaristi, per chi aborre le armi, per chi sogna un mondo senza eserciti; ma non mi ci identifico. Le armi non mi spaventano, la tecnologia di cui sono espressione mi incuriosisce, ho frequentato il poligono e conservo gelosamente le mie pistole. Detto questo guai pensare che le armi debbano essere usate per uccidere perché niente può impedire che si finisca per usare anche quelle “proibite”, come i gas o i virus fino alla catastrofe nucleare. I militari, almeno quelli in grado di intendere e di volere, sono i primi a sapere che le armi hanno ormai una semplice funzione dimostrativa e gli eserciti sono solo un fiore all’occhiello degli Stati. È il paradosso della ragione, che nel momento in cui ci avverte della assurdità della permanenza di istituzioni anacronistiche ci impone di conservarle una volta private della loro funzione originaria, depotenziate e indirizzate verso fini compatibili col presente. È il caso della Chiesa, la cui esistenza presuppone un popolo accomunato da credenze collettive delle quali non c’è più traccia nelle coscienze e di cui rimane il simulacro nell’arte nella letteratura e nella tradizione; eppure mai come oggi la Chiesa e il papato sono in grado di assolvere una funzione etica e culturale indipendente dalla riproposizione di quelle credenze. La politica è allo sbando, i cosiddetti intellettuali vaneggiano, il costume collettivo rischia una inarrestabile deriva nichilista ma la Chiesa di Roma attraverso il suo pastore tiene saldamente la barra non più della superstizione ma del buonsenso.
Ed è anche il caso degli eserciti, che in linea di principio per una persona dotata di senno non hanno senso, non solo perché le guerre sono in generale calamità imputabili all’ambizione e agli interessi di pochi ma per la circostanza che una terza guerra mondiale segnerebbe la fine della nostra civiltà ed ipotizzabile solo da un pazzo o da un demente. Detto in soldoni: se le armi e i militari servono per prepararci alla guerra, che è un evento da non prendere nemmeno in considerazione, facciamone a meno. Ma, come per la Chiesa, ci sono altre ragion d’essere per gli armamenti e le forze armate. In primo luogo sono l’espressione visibile del potenziale industriale e tecnologico di un Paese. In secondo luogo gli Stati si rapportano fra di loro facendo la ruota come i pavoni: nello sfarzo dei luoghi del potere e di rappresentanza, nelle parate, nel piglio marziale dei soldatini in alta uniforme, nella gara fra alleati fra chi ha più portaerei o più mezzi blindati. Se la Spagna smania per avere una vera portaerei è per una questione di prestigio e per emulazione nei confronti dell’Italia; gli Stati Uniti ne hanno una decina e non gli bastano ma è solo per mostrare i muscoli in qualunque possibile teatro di guerra. Ma sono i muscoli di un culturista, non di un pugile. Insomma le armi sono anche giocattoli: lo sono per i bambini come per gli adulti e lo sono anche per gli Stati. E in un mondo in cui le guerra diventa un tabù l’arma, che sia un revolver o un missile supersonico, rimane nella dimensione di giocattolo sofisticato che traina la ricerca in attesa che questo ruolo sia del tutto sostituito da oggetti privi di connotazione militare.
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