Schénfia!

Schénfia!

Mangiare identifica un’etnia, una popolazione. Cosa si mangia e come lo si mangia permette di tracciare dei confini, delle prossimità, una sorta di mappa delle genti. Più tardi è venuto il concetto di nazione, con i suoi confini sacri ben tracciati (e inventati).

Schénfia!

 Mangiare identifica un’etnia, una popolazione. Cosa si mangia e come lo si mangia permette di tracciare dei confini, delle prossimità, una sorta di mappa delle genti. Più tardi è venuto il concetto di nazione, con i suoi confini sacri ben tracciati (e inventati).

Anche il linguaggio lo si può vedere nella stessa prospettiva: ci sono parole e modi di usarle che identificano popoli e mestieri. Verrebbe da dire, giusto per semplificare un po’, che tutto quello che entra ed esce dalla bocca di un umano lo rende identificabile, appartenente a un certo gruppo.


Dato che sono pedestre, ragiono su quel che fa parte del mio bagaglio di memoria. Mia nonna, che ha sempre vissuto nei boschi, aveva le sue belle manie in tutti gli ambiti. Era una persona poco tollerante, per questo amava vivere, potendo, da sola in modo da scegliere sempre quello che riteneva più giusto e salutare per lei. L’estate le portava i nipotastri per casa: alcuni fanciulli in età adatta per impolverarsi e fare cose detestabili. Ma lei, mia nonna, aveva anche molta pazienza, soprattutto nei riguardi dei piccoli discendenti.

Nel magazzino non ci si poteva andare: c’era il granone per terra ammucchiato. C’erano i sacchi di grano o di orzo, la gabbia con il formaggio, il bottiglione d’olio, la credenza nera coni bicchierini e il liquorino da usare solo in articulo mortis. Eppure i nipotini potevano accedervi e giocarci, se proprio le condizioni meteo marine fossero state avverse. D’estate, va senza dirlo, era meglio per tutti star fuori. Quindi in condizioni normali non ci sarebbe stato bisogno di scacciare i pargoli.

La pulizia per lei era fondamentale. Un oggetto, una sostanza, un utensile, una volta che era dichiarato impuro non sarebbe stato più ammesso in casa neppure dopo un passaggio in autoclave. Il padellino ammaccato nel quale dava da mangiare al gatto, la pentola nella quale preparava il pastone per le galline, erano tutti extra muros, e l’ingresso in casa di queste stoviglie era considerato un affronto morale, un atto profondamente disdicevole.


 Erano anche schifosi quasi tutti i prodotti acquistati in bottega o nei primi, rari supermercati. Ammessi in casa, perché palesemente per uso umano, ma guardati con severa diffidenza o ribrezzo. Niente prosciutto o affettati. Nessun formaggio comprato (solo, misteriosamente, il “Bel Paese” era ammesso), nulla di elaborato, cucinato, condito, lavorato da mani aliene (dunque che non fossero le sue o di qualche parente – non tutti – o conoscente – non tutti). Erano ammesse le scatolette di tonno, la pasta, il caffè, lo zucchero, l’orzo, i biscotti del lagaccio, il latte SOLO della centrale di Savona.

Il pane però, ad esempio, era tutto buono. Di qualsiasi provenienza, forma, composizione e colore, era buono. Anche secco. Le briciole andavano sempre raccolte, a meno che non fossero sul pavimento. Se fosse caduto sulla nuda terra (intorno a casa, inteso), allora bastava soffiarci. Fosse caduto sul prato era da considerarsi perfettamente edibile da subito.

Il formaggio (prodotto in zona) era quasi sempre adatto, pulito. Anche quando, lasciato apposta a fermentare, esalava aromi a dir poco sulfurei, manifestazione evidente di alcune colonie batteriche caratteristiche. L’odore penetrante era però, in questo caso, una dichiarazione d’appartenenza, e dunque di genuinità: il formaggio della bottega, confezionato, non avrebbe mai e poi mai ceduto certi sentori.

Anche gli animali godevano di una loro scala di schifitudine: animali di bassa corte (galline, conigli, anitre, faraone, tacchini) erano ammessi (nel cortile) e il contatto fisico era limitato al momento dell’uccisione  e  macellazione, che mia nonna effettuava con rapidità ed efficacia non comuni. Finché la bestia aveva addosso il suo pelo o la sua piuma, non si sarebbe potuto fare entrare in casa, o in contatto con le stoviglie di casa.


 Cani, gatti e altri animali improduttivi ricevevano le cure del caso, ma sempre a debita distanza. Le vacche si potevano toccare sempre, e farsi anche leccare le mani dalle loro ruvide lingue. Non erano mai detestabili. Le pecore, le capre pure, ma con moderazione, perché nella lana c’è una sostanza untuosa che si attacca volentieri sulla pelle, e si sente.

Gli animali selvaggi erano tutti detestabili, vivi o morti. Solo per motivi magici si poteva arrivare a toccare una salamandra sulla coda (per la cura della mastite) o soffocare una talpa a mani nude (per acquisire la virtù), ma dopo, immagino, non sarebbe bastato un cubo di marsiglia per lavare via la memoria del contatto.

I grilli erano puliti. Come le formiche, come le api. Subito dopo venivano le vespe e i bombi. Detestabili gli scarafaggi, le scolopendre, le zanzare e i ragni. Orridi gli scorpioni e i calabroni, ma non schifosi. Ignominia e sventura sulle mosche e massimamente sui mosconi: ecco nella scala animale le bestie più detestabili in assoluto. Ho assistito a scene inenarrabili nel momento in cui mia nonna scopriva un moscone nel magazzino. Stracci sventolati, borse di nylon, versacci, mani per aria, addirittura formule magiche. Poi agguati con giornali e riviste (che dopo l’uso andavano invariabilmente bruciate, anche se nuove di un mese). Ma si preferiva espellere l’insetto che spiaccicarlo, poiché il dittero colpito sarebbe stato spalmato su una superficie non facile da espellere o bonificare. Il fato non volesse, poi, che lo sventurato cacciatore facesse cascare la carcassa in un piatto di minestra improvvidamente conservata scoperta sul tavolo. Per quel giorno non si sarebbe parlato d’altro.

D’altra parte erano ammessi, anche a tavola, i “saltarelli” del formaggio, tipi di larve dotate della capacità di brevissimo volo a molla (da cui il nome) perché: “…è il formaggio che li fa” (Non è vero, si sappia, sono larve della piofilide, che è pur sempre una mosca).

Profondamente rivoltanti erano i pesci. Massimamente quelli di mare, alieni a quella donna vissuta fra campi e boschi. Crostacei e molluschi innominabili. Ma anche quelli di fiume le facevano lo stesso effetto. Noi nipotastri si pescava selvaggiamente nel torrente in secca, e si portava a casa il poco pescato, con commovente richiesta alla vegliarda di prepararceli per cena, manco fossimo i cacciatori di bisonti tornati al loro teepee con la preda, consegnata nelle mani della squaw incaricata di farne cucina.

La nonna, rassegnata (cosa non si fa per un paio di nipotini?) si poneva con rassegnazione all’acquaio e procedeva alla raschiatura e politura. Noi, bastardissimi, ci si piazzava sulla panca di sasso sotto la finestra della cucina, apposta per sentire i versi di profondissimo disgusto, fino ai conati, conseguenti a quella operazione così vomitevole. Probabilmente aveva riservato utensili solo ed unicamente per quella operazione, da tenere in stipo riservato, ben distinti dagli altri.

Alla fine friggeva in padella il pesce (una padella nera come la notte, di ferro, vecchia almeno quanto la cucina che abitavamo) e ce lo serviva, mangiandone anche lei, perché tutto sommato, a quel punto, anche se non le piaceva le pareva giusto cibarsene anche perché oramai era diventato, per le sue convinzioni, “kosher”.

Ora la campagna che abitavamo nella mia infanzia e nella vecchiaia di mia nonna sta lentamente estinguendosi. Il bosco avanza nei campi fino a ieri coltivati. Le fonti sembrano asciugarsi, sempre più captate da umani desiderosi di sprecare acqua. Mangiamo prodotti provenienti da lontano, a prezzi sempre più bassi e nonostante si elaborino nuove tecnologie agronomiche, commerciali o merceologiche, una gran quantità di persone al mondo soffre la malnutrizione. Altrettanti sono gli ipernutriti, sovrappeso e ipertesi: mangiano cibo spazzatura perché costa poco.


 In questo contesto così poco chiaro, per non dire paradossale, arriva una norma che consente di commercializzare come prodotti alimentari alcuni insetti, larve e i loro derivati. Sarebbero una fonte di proteine, e anche loro, pare, potrebbero concorrere a risolvere il problema della fame nel mondo.

Come se non avessimo più terra da coltivare, letame con cui allietare i campi, acqua da irrigare. E invece l’abbiamo, di tutto: terra abbandonata, letame divenuto rifiuto speciale, acqua spesso inquinata o sprecata. E allora aggiungere gli insetti alle nostre possibilità di dieta non risolve un fico secco. Ma serve solo, evidentemente, ad aprire un nuovo mercato, una nuova possibilità di profitto. Guardiamoci attorno: non c’è altro che terra abbandonata. Eppure è solo dalla terra che può venire il nostro sostentamento. E gli insetti lasciamoli al loro posto nella catena alimentare, a disposizione di pesci e uccelli o piccoli predatori. Mia nonna, nella sua parlata basso piemontese, quasi ligure, a proposito degli insetti nel piatto direbbe una sola definitiva parola: “Schénfia”, ma non saprei se riservata al contenuto del piatto o a chi vorrebbe convincerci che è per il nostro bene.

  ALESSANDRO MARENCO

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