Savona, una città in declino (L’industria perduta) 2 parte
Qualche anno dopo, nel 1974, veniva varato il primo mega-yacht del mondo, si chiamava Mohamedia, aveva una lunghezza di 48 metri ed era stato commissionato dall’allora presidente dell’OPEC: Adnan Kashoggi. Forse non tutti sanno che quel mega-yacht, il primo della storia, veniva varato, guarda il caso, nel Cantiere Campanella di Savona, e ciò avveniva in concomitanza con l’inizio della crisi della siderurgia savonese.
Nel 1971, Viareggio aveva circa 55.000 abitanti; era un porto peschereccio e aveva qualche cantiere specializzato nella costruzione e manutenzione di imbarcazioni da pesca. Oggi Viareggio ha circa 62.000 abitanti – tra i quali spicca un’alta percentuale di giovani – e l’industria cantieristica navale viareggina è indiscussa leader mondiale nella costruzione di mega-yacht.
Ho voluto prendere in considerazione tre città, ubicate in tre Paesi diversi, che hanno vissuto un enorme sviluppo in termini di popolazione attiva, ricchezza e internazionalità proprio grazie al varo di quel primo mega-yacht, avvenuto, quasi per uno scherzo della storia, qui a Savona, e grazie al quale per l’economia mondiale nasceva un nuovo settore manifatturiero: l’industria della “ grande plaisance”. Non voglio però dimenticare tante altre città-simbolo dell’industria della grande nautica diportistica, come quelle della Florida orientale, da Miami a Palm Beach, del Mediterraneo, da Valencia a Barcellona, sino a Genova, La Spezia e Livorno; tutte città che hanno ottenuto economia, benessere e bellezza per aver saputo sfruttare le opportunità di crescita offerte da questo nuovo e ricco settore economico.
Intanto, mentre tutte queste città di mare iniziavano a cavalcare l’onda favorevole dell’economia generata dalla grande nautica da diporto e dal grande turismo, a Savona sventolavano le bandiere rosse sui bastioni dell’Italsider e si difendevano industrie decotte e senza futuro, con i loro altiforni portatori di silicosi per i poveri operai, e con le loro ciminiere, portatrici di inquinamento da carbone e causa di gravi patologie ai cittadini.
In quegli anni, il P.C.I. faceva marciare gli operai e gli studenti con i cartelli “Non siamo camerieri”: come dire che tolleriamo di morire di silicosi piuttosto che abbassarci al ruolo di chi deve servire gli altri, com’è necessario fare nel turismo. Il risultato di questa mentalità è una città che ai giorni nostri non solo è senza turismo, ma anche senza industria.
Fortunatamente, l’era industriale non è terminata col declino della siderurgia; piuttosto si è evoluta nelle nuove tecnologie e in quei settori ad alto know-how, che spaziano dall’elettronica alla metalmeccanica, dall’ ottica alla medicina, dalla moda all’agroalimentare, talché oggi si parla di Industria 4.0.
E’ altresì noto che gran parte dell’economia italiana, in special modo quella di nicchia, è dislocata nei distretti industriali, molti dei quali, pur avendo tradizioni a volte anche centenarie, hanno saputo adattarsi al cambiamento; questo vale per la meccanica di precisione in Lombardia, per i mobilifici nella Brianza, per gli orafi di Vicenza, per le industrie farmaceutiche della Toscana o per le industrie agroalimentari in Emilia, nel Lombardo Veneto e anche nel Mezzogiorno.
Savona, non ha mai avuto tradizioni industriali orafe, elettroniche o agroalimentari, ma ha avuto un porto con un grande spazio attiguo, prima occupato da un’importante industria siderurgica, poi divenuto libero, ubicato in una posizione geografica particolare, a un’ora dalla Costa Azzurra, a due ore dalla Svizzera, a un’ora e mezza dalle aree industriali di Torino e Milano, insieme a un’antica tradizione manifatturiera. Tutto ciò equivaleva a possedere, senza ombra di dubbio, le basi da cui poter ripartire e, da un problema nato per la fine dell’era siderurgica, avere l’opzione di un’ opportunità futura.
L’area attigua al porto, ora non più utilizzata, poteva servire per nuovi insediamenti industriali a minor impatto ambientale, rispetto ai precedenti, e più all’altezza della sfida industriale del nuovo Millennio. Quegli spazi potevano essere utilizzati per l’assemblaggio di mega-impianti da esportare, o per l’impiantistica e la logistica connesse alle funzioni mercantili, ovvero per insediamenti industriali moderni, più tecnologici e meno inquinanti.
Se penso che centinaia di yacht, da circa quindici anni, vengono costruiti ad Avigliana, in provincia di Torino, e vengono trasportati di notte al porto di Savona per la consegna ai clienti italiani oppure per venire imbarcati su apposite navi e portati ai clienti esteri, mi chiedo perché sia stato possibile creare un polo nautico sulle Alpi e non a Savona, dove vi era tutto l’occorrente: il mare, gli spazi attigui, e una tradizione di costruzioni navali da diporto che andava dai cantieri Baglietto ai Campanella, sino ai cantieri Sciallino, per non parlare dei cantieri Wally che, tra i vari motivi, hanno lasciato Savona anche per mancanza di spazi disponibili (!).
A questo punto, vi è da domandarsi come mai quelli che governavano la città e che, nella loro presunzione, si sono sempre considerati quasi per volere Divino dotati di ‘superiorità intellettuale e morale’ nonché diretti rappresentanti della classe lavoratrice, non abbiano pensato e sollecitato soluzioni confacenti a una città che aveva già una precisa vocazione industriale? Lo stesso interrogativo vale anche per i sindacati, che avevano il dovere di vigilare sull’operato degli amministratori e di proporre soluzioni più consone alla dignità e alle necessità dei lavoratori che rappresentavano.
Peraltro, grazie alla vecchia industria siderurgica si era creato un folto indotto di piccole e medie imprese specializzate nelle relative attività di manutenzione e di supporto, dove per oltre mezzo secolo i tecnici sfornati dall’ ITIS Galileo Ferraris e specializzati in elettrotecnica, meccanica, chimica ed elettronica, hanno trovato impiego.
Queste imprese, che possedevano capacità tecniche e creavano occupazione, furono addirittura ostacolate dalle Amministrazioni targate PD. Al contrario di ciò che sarebbe stato auspicabile e quantomeno logico, tutti i lavori pubblici furono direzionati verso imprese e cooperative non savonesi ma di colore rosso, col risultato di impoverire ulteriormente il tessuto tecnico ed economico della città, che invece avrebbe dovuto essere salvaguardato e valorizzato, anche per mantenere uno sbocco professionale per gli stessi diplomati dell’ITIS.
In definitiva, i Sindaci e le varie Amministrazioni di Sinistra, influenzate dal ruolo fortissimo del PCI prima e del PD in seguito, si sono resi responsabili di aver ridotto la nostra città a diventare un’oasi deindustrializzata, di concerto con quei sindacalisti che, con la scusa di tutelare i lavoratori, si sono creati delle rendite di posizione ‘maneggiando’ casse integrazioni e prepensionamenti. L’unico risultato di cotanto attivismo di sinistra è stato quello di rendere possibile un cambio di destinazione urbanistica di determinate aree industriali dismesse, come la ex Italsider, divenuta residenziale a vantaggio di poche famiglie savonesi, oppure per altre aree come la ex Mammut, di destinarle alla realizzazione di ipermercati. In definitiva, sono state trascurate se non anche ostacolate le attività realmente produttive, mentre quelle improduttive, come l’edilizia speculativa, o quelle che addirittura hanno depauperato l’economia savonese, come la grande distribuzione, sono state favorite.
Ricordo che a quei tempi De Mita, accusato di elargire pensioni di invalidità nel Meridione in cambio di voti, rispondeva candidamente che anche al Nord si regalavano casse integrazioni sine die in cambio di voti.
Io, che a quei tempi non facevo più politica e iniziavo a fare impresa, assistevo, da uomo di sinistra, a quella situazione assurda e soffrivo per l’inettitudine, se non per l’ ipocrisia, della classe dirigente che dominava la mia città e che stava tradendo spudoratamente quegli elettori che l’ aveva votata, me compreso.
Per contro, nel Veneto nascevano già a quei tempi imprese start-up in ogni settore e si iniziava a parlare di economia circolare; per esempio, mentre a Venezia (città assolutamente turistica) si dava avvio alla valorizzare gli scarti derivati dalle produzioni del territorio per riciclo, a Savona gli Amministratori della città trasformavano alcune aree da industriali in residenziali e mettevano in atto la più deprecabile speculazione edilizia, sulla quale purtroppo il Procuratore Acquarone non è riuscito a terminare l’indagine perché trasferito, mentre cadevano nel vuoto… le interpellanze…. dell’amico consigliere comunale Bertolazzi alla allora Giunta di Sinistra capeggiata dal sindaco Ruggeri: un vaso di Pandora che se aperto, avrebbe potuto far rotolare parecchie teste, e qui mi fermo.
Che dire poi delle altre aree industriali, come la ex Magrini o quella della ex Mammut dove, come detto, sono sorti solo dei supermercati, che hanno distrutto il piccolo commercio, che portano gli incassi e i profitti altrove, che in cambio danno lavoro soltanto a pochissime persone (e che razza di lavoro!) e che hanno desertificato vaste zone della città, ora abbandonate e insicure, per la mancanza di quei tipici presìdi che le botteghe rappresentano in termini di pulizia, decoro e sicurezza?
Il fatto stesso che il presidente dell’Unione Industriali di Savona, città della Padania e di antiche tradizioni industriali, sia stato sino a poco tempo fa un imprenditore edile, dà l’idea di come la nostra città sia caduta in basso in termini di economia reale – temo irrimediabilmente.
Per usare una frase di Carlo Freccero, intervistato da Concita De Gregorio nel corso del programma televisivo Fuori Roma: “A Savona il potere era il PCI, e il PCI non ci ha lasciato nulla; un Post di niente!”.
In verità qualcosa ci ha lasciato: il carbone!
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