Sacro e magico

Sacro e magico
Mia nonna aveva la “virtù”, sapeva insomma curare colpi di sole, d’aria, paura, vermi, resipilie, biscere e altri accidenti misteriosi

Sacro e magico

 Avevo una dozzina d’anni quando, un inverno, le tonsille si furono gonfiate e ricoperte di placche. Mia madre ricorse al medico, che venne a visitarmi e prescrisse antibiotici e sciroppo, o almeno così mi par di ricordare.

Mia nonna, che viveva con noi, aveva la “virtù”, sapeva insomma curare colpi di sole, d’aria, paura, vermi, resipilie, biscere e altri accidenti misteriosi. Non ne andava fiera, non se ne vergognava, ma non manifestava mai questa capacità acquisita, lei mi disse, da una sua zia.

Per farla breve fui sottoposto a un ciclo di cura tradizionale per il mal di gola. Si trattava di friggere in olio della camomilla, spalmare l’olio (freddo) sulla gola frizionando delicatamente, poi coprire per bene con della lana di pecora così com’è tosata, senza neppure lavarla.

Eravamo già tanto civilizzati che non fu possibile trovare lana originaria, per cui ci accontentammo (con un certo sollievo da parte mia) di una buona matassa di lana proveniente da un materasso di casa.

Mesi dopo, trascorsa una giornata estiva al caldo e al sole, tornai a casa con un po’ di mal di testa. Mia nonna non vedeva l’ora: questa volta fui sottoposto a una cura unicamente magica, sacralizzata dalla preghiera. Un tovagliolo piegato in quattro su un bicchiere, entrambi capovolti e posti sulla fronte del malato. Intanto la curatrice recitava a mezza voce formule o preghiere. Si formavano dunque delle bollicine sul fondo del liquido, che presto s’incolonnavano verso la superficie, segno evidente dell’efficacia della cura.

 

Il momento tragico arrivò quando mia nonna si rese conto di non ricordarsi più con quale ordine si dovesse rimuovere il bicchiere e il tovagliolo. Dopo qualche esitazione mosse la costruzione e l’acqua fresca mi lavò la faccia, con indubbio piacere.

Allora, anche se ero poco più di un bambino, guardavo a queste cure con un sorriso bonario e saputello. Accondiscendente anche. Ma si, certo: superstizioni, usanze, magie di chi non aveva nulla con cui curarsi, prendersi cura di un malato. E allora, meglio di niente, un rito, una preghiera, uno spettacolino per i presenti e per il malato. Per ingannare il tempo che deve passare per guarire dalle malattie che guariscono. Perché per quelle che non guariscono, tanto, non c’è niente da fare.

Mi sono serviti molti anni per comprendere il valore e il senso di quegli atti. E ancora oggi ci penso spesso e non sono ancora arrivato a dar loro il contesto completo, esauriente per comprenderli, per trovare il posto dove classificarli.


Che abbiano la stessa capacità di guarigione di un placebo è ormai cosa acquisita e di cui non mette conto parlare. Più interessante, invece, è ripensare a queste cure popolari, magiche o d’erbe o di tempo, stagione o luna, nel quadro complesso di una visione dell’universo e del posto dell’uomo in questo mondo.

Intanto scoprire che ogni civiltà, in ogni angolo del mondo, possiede le sue cure magiche è già un dato interessante. A questo punto gli “esoterici” vedranno in questa constatazione la dimostrazione e dell’efficacia delle cure, e del sincretismo religioso che lega tutti gli esseri umani. E a me vien subito da rispondere che no, un rito che si ripete ovunque non è la prova della sua efficacia, dimostra ben altro. E sul sincretismo religioso, beh, è di per sé argomento tanto complesso che dovrei fare a meno di parlarne, da incompetente quale sono. Ma voglio aggiungere due parole sulla cosa, giusto per ragionarci meglio: le cure, i riti magici, gli aruspici, le previsioni del tempo e dei tempi, sono un patrimonio legato principalmente al fatto che dalla stagione dipenda il raccolto, le migrazioni di animali e uomini, la fame e la sete. Saper prevedere il momento giusto per seminare (e ricordiamo che il seme da seminare era anche l’ultimo della dispensa) era di importanza capitale e definitiva per ogni civiltà. In ogni caso la terra, il cielo, i boschi, il vento, gli animali, l’acqua, il fuoco e l’uomo partecipavano in accordo e risonanza alla vita. Tutto ne faceva parte. Se qualcosa non funzionava, il rischio era che tutto l’edificio crollasse, con grave dolore. Così hanno vissuto gli uomini dai ghiacci del nord alle savane, elaborando poi in locale questa visione generale.

Nelle nostre valli i cristiani dovrebbero essere arrivati sei o sette secoli dopo Cristo. Si sono insediati progressivamente, forse mescolandosi con i pochi villaggi esistenti. Organizzati e diretti da vescovi e dai monasteri fondati con il contributo dei regnanti, hanno portato la Buona Novella tra i pagani, insieme a tecniche, tecnologie, sementi e nuove razze animali, per riavviare una civiltà non solo ascetica, non solo religiosa, ma costruita solidamente sul lavoro, sul rapporto con la natura, la coltura, l’allevamento, la manifattura (il vetro e il ferro, tanto per dirne due antichissime savonesi).

 

Prima c’era da scacciare o perlomeno sovrapporsi alle antiche divinità. Ma l’uomo non scaccia volentieri gli spiriti e gli dei, ne teme comunque la vendetta. Allora si cambia il contesto ma si lascia il dio: un dio guerriero come Marte può diventare un arcangelo armato di spada, o un santo armato come San Martino. La Madonna viene rappresentata spesso con la mezzaluna ai piedi, proprio per una sorta di continuità con la dea Diana. Santa Marta viene rappresentata con al guinzaglio un drago, in cui si dovrebbe riconoscere l’eresia, il peccato, la via sbagliata. Le grotte considerate sacre fino a ieri, vengono rivestite da leggende orribili, demoniache, spaventose. Le rocce sacre ad altri culti vengono coperte di croci incise, a rimarcare il nuovo e veridico culto che scaccia la superstizione.

Anche nei modi di dire si salva qualcosa: “Di venere e di marte non si sposa e non si parte”, proprio per scacciare la consuetudine antica legata a Venere per le unioni, a Marte per le partenze (soprattutto in guerra…).

Molti di questi rituali sono andati persi nel tempo, sostituiti da cerimonie più moderne, proprie di istituzioni più potenti. Altre si sono salvate da sole, giudicate efficaci nel tempo, o non fastidiose per il culto ufficiale. I cicli lunari, tra gli altri, sono quelli che chi frequenta la campagna e il vino, segue con maggior cura e devozione. Ma la spiegazione non è più sacra: si dice infatti che la luna sia in grado di influenzare il vino o le patate o la semina, così come influenza le maree di acqua o di terra sul pianeta, razionalizzando un culto che non aveva mai avuto bisogno della gravitazione universale per dimostrarsi efficace. Così come l’oroscopo, da osservazione del firmamento, è diventato triste gioco solitario a cui chiedere quotidianamente se si troverà parcheggio vicino all’ufficio o se incrocerò lo sguardo della bella (del bello) di turno. Quanto è scesa la mira…

 
Il libro di Levi e Ernesto de Martino

Le cure resistono nelle mani di vecchie nonne, o zie. Presto scompariranno con loro. È un peccato, perché non siamo stati capaci di far nostri questi riti con il rispetto che dobbiamo ai reperti di un altro tempo.

Ancor più triste, però, è che abbiamo sostituito la fede nel sacro, nel rito, nella preghiera, con la fede nella scienza. La scienza non vuole fede: vuole studio. E noi di studiare non ne abbiamo voglia. Ci basta raccattare due informazioni su internet, impastare a qualche vecchia nozione di chimica, condirle con qualche bufala appresa qua e là e tutto è risolto, e diamo retta ai complottisti, alle cure miracolose, ai santoni dall’onorario lasciato alla generosità di ognuno.

Per comprendere meglio la nostra Storia, le nostre tradizioni (di cui troppo si sproloquia ultimamente, sapendone pochissimo) proporrei di avvicinarsi al tema con le parole di un grande scrittore e artista, un grande conoscitore dei contadini del sud, visti da vicino con la semplicità di chi si è legato in modo indissolubile con loro, tanto da esserci sepolto: Carlo Levi.

Tutto per i contadini ha un doppio senso. La donna-vacca, l’uomo-lupo, il Barone-leone [Barone è il nome del cane dell’autore], la capra-diavolo, non sono che immagini particolarmente fissate e rilevanti; ma ogni persona, ogni albero, ogni animale, ogni oggetto, ogni parola, partecipa di questa ambiguità. La ragione soltanto ha un senso univoco, e, come lei, la religione e la storia. Ma il senso dell’esistenza, come quello dell’arte e del linguaggio e dell’amore, è molteplice, all’infinito. Nel mondo dei contadini non c’è posto per la ragione, per la religione e per la storia. Non c’è posto per la religione, appunto, perché tutto partecipa della divinità, perché tutto è, realmente e non simbolicamente, divino, il cielo come gli animali, Cristo come la capra. Tutto è magia naturale. Anche le cerimonie della chiesa diventano dei riti pagani, celebratori della indifferenziata esistenza delle cose, degli infiniti terrestri dèi del villaggio.

Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi 2014. Pag. 102

E mi par giusto ricordare anche un altro personaggio fondamentale per la comprensione dell’ambiente sacro rurale, di cui ricorrono in questi giorni i 107 anni dalla nascita: Ernesto de Martino.

  Alessandro Marenco

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