Riforme e controriforme. Con lo spettro del premierato
Grazie ad una classe politica inqualificabile l’Italia ha compromesso in maniera temo irrimediabile le relazioni con la Russia, alla quale ci legavano secolari vincoli culturali ed economici rimasti intatti anche durante il Ventennio mussoliniano fino al disastro della guerra. In compenso si è legata a doppio nodo ad un’Europa tenuta insieme dal padrone americano e ha rinunciato all’ultima residua parvenza di sovranità.
E intanto, con una formidabile mancanza di senso del ridicolo, i media tentano di coinvolgere l’opinione pubblica nella polemica interna al Palazzo sulle riforme istituzionali. Una polemica che potrebbe avere una sua ragion d’essere e dare senso agli argomenti pro o contro le diverse ipotesi in conflitto fra di loro se non fosse che: 1) quello dell’assetto istituzionale è l’ultimo dei problemi per il nostro Paese; 2) l’esigenza di mettervi mano non ha il minimo riscontro nella società civile; 3) il senso dello Stato, la cultura e la sensibilità istituzionale dei protagonisti di questa polemica sono pari a zero; 4) tutto nasce dalla riedizione di ambizioni personali: ieri Berlusconi oggi la Meloni con un passaggio di testimone da incubo; 5) dietro si intravede uno scambio mercantile fra leghismo regionalista e sgangherato centralismo neomissino.
Ma soprattutto a rendere surreale il dibattito intorno al potenziamento dell’azione e della stabilità dell’esecutivo è il deserto morale, intellettivo, culturale nel quale si dovrebbe aggirare l’uomo forte investito direttamente dal voto popolare. Perché il problema che affligge l’Italia è il pessimo livello delle persone che fanno politica, la loro mancanza di spirito di servizio, la loro bulimia di privilegi, la strumentalizzazione dei bisogni reali del Paese, la loro limitata capacità d’intendere. La politica diventata mestiere è una cloaca che infetta i corpi sociali che le si accostano, dall’accademia alla magistratura fino all’imprenditoria e al mondo dello spettacolo. L’idea che da lì possa venir fuori un uomo – o una donna – soli al comando mette i brividi.
In più. e anche questa è una prova ulteriore della scarsa avvedutezza di opinionisti e politici, l’inopportunità di guardare all’estero – gli Stati uniti, la Francia o la Germania – per trovarvi ispirazione e modelli quando il presidenzialismo americano, il semipresidenzialismo francese o il cancellierato tedesco attraversano una crisi profonda. In America il sistema ha funzionato finché la società, pur afflitta dalla difficoltà di integrazione della minoranza nera, era unificata da uno stile di vita e da valori autenticamente condivisi, fiduciosa e legata ad una tradizione di democrazia partecipata e resa coesa da una religiosità diffusa; che fosse espressione del partito repubblicano o di quello democratico il presidente, una volta eletto, rappresentava tutta la nazione ed era il presidente di tutti gli americani.
Ma da quando il sogno americano si è infranto contro le ricorrenti crisi economiche, con le nuove ondate migratorie che hanno acuito il senso di insicurezza e vanificato l’ascesa sociale di una parte della popolazione di colore e col cristallizzarsi delle disuguaglianze, la società americana ha perso la sua coesione e si è creato un corto circuito fra il brusco riflusso nel privato e la sua vocazione aperta ed inclusiva, un corto circuito capace di minare le basi della democrazia americana e di stravolgere il senso del bipartitismo. I due partiti sono diventati interpreti di una spaccatura approfondita da frustrazione, sfiducia, rancore.
Quelli che si sono accomodati nel salotto buono guardano con disprezzo misto a paura agli esclusi, si rifiutano di legittimare la loro rappresentanza politica, la bollano come populismo e considerano il trumpismo una malattia della democrazia. Per contraccolpo le posizioni si radicalizzano, Biden diventa espressione di un’élite nella quale metà del Paese, se non la maggioranza, non si riconosce e questa circostanza accentua la sua personale inadeguatezza; il sistema rischia così la paralisi per l’impossibilità di mediare fra il Congresso, la presidenza e l’opinione pubblica, che in America, a differenza di quanto accade in Italia, qualcosa conta. Non va meglio col sistema francese; il capo del governo non conta nulla, il parlamento è in stallo e Macron deve spostare il suo baricentro all’esterno perché in casa sua è diventato un ospite sgradito. Sullo stato di salute del cancelliere tedesco e la sua effettiva capacità di tenere il timone è lecito nutrire qualche dubbio. La Germania ha finora mantenuto il suo primato economico ma la sua navigazione politica è affidata all’isterismo dei verdi e alle pressioni americane. A far funzionare il sistema non era il cancellierato in sé ma la personalità del cancelliere, che fosse Angela Merkel, Schröder o l’inarrivabile Adenauer. La Meloni non capisce, o non vuol capire, che il prestigio, il carisma, l’autorevolezza del capo proviene da chi lo sostiene ma per avere il sostegno bisogna meritarselo e l’ambizione non basta se la natura è stata avara. Biden ha gli stessi poteri di Reagan ma non ha la stoffa di Reagan (in realtà non ha nemmeno quella di Carter); perché funzioni il sistema presidenziale americano, col capo dello Stato che è anche capo del governo (ma il Congresso che ha le chiavi della cassa), bisogna che siano rispettate entrambe le condizioni: il carisma del capo e il consenso del Paese. Giorgia Meloni mi potrebbe obbiettare: Io valgo! e godo di una maggioranza schiacciante! Bene, che lei valga sarà una convinzione sua e forse di qualche suo familiare; sul consenso dell’elettorato si fanno presto due conti: alle elezioni politiche che l’hanno portata al governo la sedicente destra FdI, pur giovandosi del suo ruolo di (finta) opposizione, ha raccattato uno striminzito 16% di voti dell’elettorato italiano, il cui 34% ha disertato le urne (e non metto in conto i voti nulli o bianchi). Un po’ poco per giustificare trionfalismi. Gli altri, è vero, sono riusciti a fare peggio e anche molto peggio ma questo non torna a vantaggio della Meloni: è il segno che sempre più italiani si rendono conto che l’Italia è una democrazia solo di facciata e non vale la pena prendersi l’incomodo di andare a votare.
Gli italiani sono disgustati dalla politica. Un disgusto che dopo la fiammata grillina ha avuto il merito di annacquare identità e smorzare contrapposizioni: la società italiana ha così trovato il modo di rappacificarsi; se prima di parlava animatamente di politica per difendere o per attaccare ora se ne parla per recriminare, si è consapevoli di essere tutti nella stessa barca alla deriva, nessuno si chiede più se sei di destra o di sinistra e quei pochi che difendono le scelte del governo lo fanno sommessamente e senza convinzione; la stragrande maggioranza si è lasciata alle spalle posizioni preconcette, egoismi di status, persino l’invidia sociale per ritrovarsi compatta nel maledire l’invio di armi e il cieco appiattimento sulla propaganda ucraina, nel constatare la presa in giro della riforma fiscale, il degrado delle città, l’invasione ormai incontrastata e supinamente accettata.
E insieme alla frustrazione cresce l’insofferenza, direi quasi una voglia impotente di menare le mani in attesa del pifferaio di turno. Non è un clima rassicurante.
P.S.
Sulla costituzione: invece di pensare a riformarla si badi piuttosto a rispettarla, a cominciare dai non-poteri del capo dello Stato. Figura di prestigio, tagliatore di nastri, rappresentante all’estero degli interessi nazionali ma poco più di un simbolo al quale non compete dettare le linee della politica estera. E un settennato è già un’esagerazione sfuggita ai padri costituenti; se avessero ipotizzato il raddoppio tanto valeva tenersi il re.
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Bravissimo, analisi perfetta. Anche leggendo solo il suo P.S. si capisce perché l’Italia è così malconcia