Retorica ecologista e difesa dell’ambiente

RETORICA ECOLOGISTA 
E  DIFESA DELL’AMBIENTE

Retorica ecologista e difesa dell’ambiente

 È un brutto momento per chi ha a cuore l’ambiente, ama e rispetta la natura, coltiva in sé il sentimento del bello. Dalla Svezia spira una brutta aria, un tanfo di retorica e di ipocrisia, un infantilismo culturale e politico che è rimbalzato nelle nostre piazze, nelle facce stordite di adolescenti più sensibili al richiamo della triste allegria di fischietti, tamburi, slogan e passi di danza che delle leopardiane sudate carte.


Questi ragazzi sono la nostra speranza, argomentano sui giornaloni gli opinionisti di regime con sovrano sprezzo del ridicolo. Io punto su quelli che sono rimasti a casa, visto che per la complicità di presidi e con la connivenza degli insegnanti molte scuole sono rimaste chiuse. Le scimmiette ammaestrate aizzate contro il mondo degli adulti fanno presagire poco di buono per il nostro futuro. Mi spaventano molto più loro del buco nell’ozono, dei cambiamenti climatici e del riscaldamento globale. 

La mia deplorevole sfiducia non tanto nella scienza quanto negli scienziati, e, in particolare, quegli catastrofisti, non mi porta certo a simpatizzare per chi inquina l’aria che respiro, il mare in cui mi tuffo e l’acqua che bevo. Ma non è con il gretinismo che si salva l’ambiente e non porta lontano la pretesa di modificare le macchie solari.  Quando poi ti accorgi che in quelle cento o mille piazze colorate spuntano cartelli  no bordere senti ragazzine che ti vorrebbero imporre la dieta vegana allora cominci a capire il sincronismo di quelle manifestazioni, la sapiente regia che ne assicura il successo, il megafono mediatico, che, guarda caso, è esattamente lo stesso che dà fiato alla sinistra moribonda  che si sforza di creare nuovi miti – o nuovi specchietti per le allodole – per distrarre dai problemi concreti che lei stessa ha creato e incanalare le masse lungo i percorsi segnati dal sistema. 


Ciò che fa rabbia è che quella di salvaguardare la natura è un’esigenza reale e concreta e non il falso problema agitato in quelle piazze. Non starò a insistere sulla contraddizione di una generazione sfrenatamente consumista che straparla contro il consumismo o di figli di papà col futuro assicurato che bloccano le strade e rompono vetrine per imporre la chiusura di un impianto, tanto se qualche centinaia di papà meno fortunati perdono il lavoro chissenefrega. Quello che mi interessa sono gli obiettivi e la strategia di una autentica battaglia per l’ambiente, dai quali la ridicola lotta contro i cambiamenti climatici o il riscaldamento globale col corollario dei presunti “fenomeni estremi” cerca di distrarre.

Un primo obbiettivo dovrebbe essere quello di contenere le nascite nel terzo mondo. Se la popolazione cresce più delle risorse disponibili è un disastro. Un secondo obbiettivo dovrebbe essere quello di impedire che uno sviluppo incontrollato, disordinato e ingiustificato delle periferie continui a mangiarsi l’ambiente naturale. È molto più saggio favorire uno sviluppo verticale e circoscritto degli agglomerati urbani puntando sui servizi, l’arredo, la qualità della vita, la mobilità sostenibile, lo smaltimento razionale dei rifiuti. Un terzo obbiettivo dovrebbe essere la cura maniacale del patrimonio boschivo e delle acque interne. L’inquinamento da co2 è una cosa senz’altro grave e non mi permetterei di negarlo o sottovalutarne le conseguenze. Ma ciò non mi impedisce di vedere quello che ho sott’occhio: i nostri fiumi ridotti a fogne di liquami e veleni che a loro volta, con tutte le bandierine blu piantate dalle golette verdi, fanno dei nostri mari delle fogne.  Non mi sognerei mai di chiedere la chiusura di calzaturifici e mobilifici, inquinatori più subdoli e pericolosi di qualsiasi raffineria, ma mi piacerebbe che i movimenti ecologisti, senza paura di pestare qualche piede amico, chiedessero interventi drastici per rendere quelle attività compatibili con l’ambiente e la salute delle persone, senza usare a comando i dati, che esistono, sull’incidenza di tumori e malattie dell’apparato respiratorio, e, siparva licet componere magnis,  vorrei che si impedisse a ristoranti, kebab e friggitorie di appestare l’aria. Perché se uno non vede il male intorno a sé e non lo combatte non è molto credibile quando predica la mobilitazione contro un male lontano. 


Chi si agita per la difesa della natura deve sapere di che sta parlando e che cosa in concreto vuole. Prodotti di qualità più costosi e di maggiore durata rientrano in un circuito virtuoso che incoraggia la ricerca, raffina le competenze, esclude la delocalizzazione e guarda ad un consumatore più attento e meno sbilanciato verso oggetti usa e getta. Un consumatore spinto da bisogni reali e non da bisogni indotti, uno che se gli serve solo un telefono non compra uno smartphone di ultima generazione, uno che preferisce un’escursione sulle colline  di casa sua al  “safari” in Kenia e il Brasile si accontenta di conoscerlo grazie ai libri al cinema e alla tv. 

Né crescita né decrescita ma un sistema omeostatico all’interno del quale si possa riprodurre ciò che viene consumato e distrutto. Uno  sviluppo sostenibile, circolare, con un circuito di retroazione che lo mantiene in equilibrio: il progresso è un mito positivista che brucia risorse e dà luogo a una corsa in cui chi resta indietro sono l’umanità e i suoi valori. Quello del buon selvaggio è a sua volta un mito al quale in realtà nessuno crede e che, se realizzato, renderebbe l’uomo vittima dei suoi bisogni primari spengendo la luce dello spirito e dell’intelligenza.


Se si parte lancia in resta contro i “cambiamenti climatici” si ottiene l’unico risultato di corroborare la convinzione che tanti spiriti liberi e disincantati hanno maturato: negli alti e bassi della storia, nelle alterne vicende della cultura e della civiltà, ci è toccato di vivere in un momento di disorientato infantilismo e di stupidità collettiva, chiamiamola pure gretinismo  come involontariamente suggeriscono opinionisti e giornaloni per i quali la giovane svedese è  un simbolo, ma non per quello che intendono loro.

In tutto questo, nel quadro desolante del giornalismo italiano, dei mauro, dei rampini, dei capranica, devo onestamente riconoscere le voci dissonanti di Ferrara, di Guzzanti, di Porro, verso i quali non nutro simpatia alcuna (dall’ultimo, per averne criticato alcune esternazioni sul terreno scivoloso della scuola, ricevetti una minacciosa risposta come se i personaggi pubblici non fossero come tali esposti al pubblico giudizio, dei primi due non condivido quasi nulla);  ma, al di là delle personali idiosincrasie, vedere qua e là la luce dell’intelligenza fa sempre piacere. 


Per concludere, a proposito di gretinismo, è illuminante l’ignobile vignetta che su Repubblica contrapponeva allo sparatore australiano i ragazzi che vogliono salvare la Terra. Gli stessi media e opinion maker che rivendicano  alla sinistra il baluardo dell’ambiente fanno dello psicopatico  il braccio armato della destra sovranista, denunciano la politica economica fallimentare del governo gialloverde  e l’isolamento dell’Italia in Europa, aggravato ora dal legame che si sta stringendo con la Cina, e condannano la chiusura dei porti alle Ong e il blocco della migrazione illegale.  Ne emerge l’identità della Nouvelle Gauche, del Pd rinnovato sotto la guida di Zingaretti: una grande forza salottiera  impegnata a combattere il riscaldamento globale, a sbarrare la strada al fascismo incarnato da Salvini, che è la reincarnazione del Duce, e a difendere con ogni mezzo i diritti dei migranti.

A questo punto sondaggi e risultati elettorali sono irrilevanti. La sinistra non esiste più, è morta e sepolta.  A conclusione della sua metamorfosi il partito di Gramsci e di Togliatti, che era stato il tentacolo italiano dell’Unione sovietica e un assaggio  del comunismo realizzato ma anche  il partito che aveva il suo baricentro nella fabbrica, il partito degli operai e dei contadini in lotta contro agrari e industriali, si è sciolto ora in una brodaglia radical-chic in cui sguazzano ectoplasmi politici telecomandati oltralpe dalla superburocrazia sovranazionale. 

 

 Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione

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