Regioni, astensione e fragilità del sistema politico italiano: un bivio per la democrazia

In Italia sta per aprirsi un nuovo ciclo di elezioni regionali. E, ancora una volta, la fase preparatoria mostra con chiarezza i punti deboli dell’architettura istituzionale e del tessuto politico.

La formula dell’elezione diretta a cariche monocratiche, esaltata vent’anni fa come strumento di semplificazione e “modernità”, ha prodotto invece presidenti-regnanti gelosi della propria sopravvivenza politica e trasformato le Regioni in agenzie di spesa e nomina, spesso più attente al controllo del potere che ai servizi ai cittadini. Il risultato più visibile è stato il progressivo smantellamento del sistema sanitario pubblico a favore di logiche privatistiche e, parallelamente, la moltiplicazione di inchieste giudiziarie che hanno colpito diverse giunte regionali. Non è un caso che l’elettorato, davanti a questo scenario, diserti le urne: Emilia Romagna al 46,42%, Liguria al 45,97%, Basilicata al 49,81% nelle regionali del 2024.

L’astensione è il vero convitato di pietra. Dai 34 milioni di voti validi del 2013 ai poco più di 28 milioni del 2022, l’Italia ha perso in meno di dieci anni circa sei milioni di cittadini attivi. Non c’è populismo né sovranismo che tenga: la disaffezione è strutturale e non più episodica.

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Eppure, mentre il sistema perde consenso, la compagine di governo regge. Fratelli d’Italia, dopo il balzo del 2022, continua a mantenere la maggioranza relativa, consolidando un primato che nessun partito era riuscito a difendere per due tornate consecutive dal 2013 in avanti. Dal PD di Bersani al M5S di Di Maio, fino a Meloni, la scena è stata sempre mobile; oggi invece, pur con numeri in calo, la distanza dagli alleati di Lega e Forza Italia resta stabile.

Il paradosso è evidente: un partito con radici ideologiche nette e un nucleo identitario che guarda a riferimenti culturali e simbolici del passato missino riesce a occupare silenziosamente ogni spazio disponibile. Non solo ministeri e sottosegretariati, ma soprattutto le pieghe minute del potere: enti, aziende pubbliche, organismi culturali, comunicazione. Una strategia che plasma lentamente un’opinione pubblica pronta ad accettare forme di democrazia illiberale, come mostrano i crescenti applausi a slogan che attaccano la magistratura e rilanciano un’idea personalizzata del potere.

E l’opposizione? Il Partito Democratico – pur restando il principale partito di minoranza – sembra incapace di elaborare un’analisi critica su cosa sia realmente Fratelli d’Italia e quale sia la natura del suo consenso. Un vuoto che pesa. Perché per contrastare una destra ideologizzata non basta la somma di sigle, né il richiamo generico al “campo largo”: occorre costruire una proposta competitiva, coerente, che sappia parlare all’insieme della società con temi forti e credibili.

Tre sembrano le priorità per un’eventuale alternativa:

  1. Economia e società: affrontare disuguaglianze crescenti, precarietà, transizioni digitale ed ecologica non con slogan ma con politiche reali.
  2. Politica estera e pace: rimettere al centro il ruolo dell’Europa come spazio politico e non come terreno di resa alle grandi potenze, costruendo una posizione autonoma sulle crisi internazionali.
  3. Questione costituzionale: difendere la democrazia repubblicana da derive personalistiche, riaffermando la differenza tra governabilità e concentrazione del potere.

Il rischio, altrimenti, è che la Costituzione formale venga lentamente riscritta da una “costituzione materiale” plasmata dall’occupazione degli spazi, dalla logica clientelare e dall’egemonia culturale costruita passo dopo passo dalla destra di governo.

Siamo a un bivio. Le elezioni regionali che stanno per arrivare non risolveranno i nodi, ma ci restituiranno una fotografia chiara: da una parte, un partito che – nonostante il calo di partecipazione – rafforza la propria presa sul sistema; dall’altra, opposizioni frammentate che rischiano di rincorrere senza mai davvero competere.
La tenuta democratica del Paese dipenderà dalla capacità, o dall’incapacità, di colmare questo squilibrio.

T.S.

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