Racconto Gotico

RACCONTI GOTICI di  Franco Ivaldo
IL CASTELLO DEI MISTERI

RACCONTI GOTICI di  Franco Ivaldo
IL CASTELLO DEI MISTERI

In una contrada della Liguria, sperduta su un crinale degli Appennini, sorgeva – sul picco più alto -un castello che gli abitanti  del paesello sottostante guardavano con reverenziale timore. Una leggenda raccontava che ad ogni secolo, in quel maniero misterioso, scompariva una ragazza vergine, rapita da uno sconosciuto che si era  insediato in quel luogo: doveva trattarsi, secondo la leggenda popolare, di un mostro forse privo di sembianze umane.

Ma nessuno poteva dirlo, in quanto quella spaventosa entità  non era stata mai veduta da anima viva. Non per nulla era soltanto una leggenda. Non era ancora diventata, per fortuna, cronaca quotidiana da dare in pasto ai lettori dei giornali.

 Ma nel borgo ligure, che chiameremo semplicemente con la classica X dell’anonimia, non erano pochi coloro che prestavano credito a simili favole. Un po’ per superstizione ed in parte a causa della sorella della superstizione che, come tutti sanno, è la beata ignoranza. Come stavano realmente le cose ?

Lo si seppe un brutto giorno d’inverno, quando, inopinatamente, la leggenda divenne cronaca e nel paesino arrivarono schiere di inviati speciali e di operatori della televisione ,della radio e della carta stampata.

Era scomparsa una giovane. Si chiamava Edvige Bartolomei. Era la figlia del panettiere del borgo, Giuseppe, che viveva solo con lei da quando la moglie, Pinuccia, era morta .

Edvige era una prosperosa figliola dai capelli rossi come il fuoco,  e fidanzata ad un bravo giovane del posto : Giorgio Diliberti, il quale non si dava pace dell’accaduto.

“L’avevo vista all’alba, sull’uscio di casa sua. L’avevo salutata – come facevo ogni mattina – prima di recarmi al lavoro. Suo babbo lavorava nel forno qui vicino da parecchie ore. Avevamo parlato del più e del meno, come sempre, ripromettendoci che ci saremmo rivisti al tramonto. Una di queste sere , l’avrei portata a ballare. Insomma, tutto andava per il meglio. Non riesco a spiegarmi che cosa sia avvenuto di lei. Davvero.”

Il giovane era scoppiato in singhiozzi, mentre il maresciallo dei carabinieri registrava la sua testimonianza. Non era incolpato di alcunché, ma essendo il fidanzato e l’ultima persona ad aver visto Edvige era ovvio che qualche sospetto si puntasse su di lui. Giorgio Diliberti l’aveva compreso subito dal fatto che aveva dovuto ripetere più volte la deposizione e, una volta ottenuto il permesso di tornarsene a casa, aveva subito avvertito il fatto che in paese l’atmosfera era cambiata. La gente non diceva nulla ma a lui sembrò che lo guardassero in maniera piuttosto strana.

Il padre Giuseppe, dal canto suo, aveva narrato di essere uscito all’alba, come ogni giorno, per fare il pane. Era giunto al forno – come faceva abitualmente -e si era messo al lavoro di buona lena. La sua alacrità era nota nel paese che lo apprezzava come integerrimo lavoratore, peraltro (essendo l’unico panettiere nel raggio di venti chilometri) un uomo essenziale alla sopravvivenza stessa del paesello.

“Quando sono uscito di casa, Edvige sicuramente dormiva. Non l’ ho vista perché esco sempre dalla mia camera cercando di non svegliare mia figlia che dorme nella stanza adiacente alla mia. Ma ritengo che non vi fossero particolari problemi.  Deve essersi alzata alla solita ora: circa due o tre ore dopo di me, vale a dire verso le sette del mattino.  E se il fidanzato Giorgio dice di averla vista sull’uscio di casa non ho motivo di dubitarne. Il fatto è che non riesco a spiegarmi che cosa sia accaduto dopo…”

Neppure i carabinieri seppero spiegarlo. Tanto più che il “principale sospetto”, come si suol dire, cioè  Giorgio aveva un alibi di ferro. Era al suo lavoro di meccanico e la testimonianza del capo dell’officina era stata più che esplicita: Giorgio è rimasto per tutta la mattinata ad occuparsi di un’autovettura che aveva diversi problemi.

A mezzogiorno, abbiamo mangiato assieme un pasto frugale e poi di nuovo sotto fino al tramonto. All’officina, era venuto puntuale come ogni mattina…”

Alibi di ferro.

Dunque, conclusero i carabinieri, mentre il padre ed il fidanzato erano ai rispettivi posti di lavoro, la giovane era sparita.

Per alcune settimane, verifiche a tappeto nelle due case dei protagonisti: quella paterna e quella del  Diliberti. Nessun indizio, niente di niente. Mistero fitto e cupo. Una sparizione in piena regola. La giovane era svanita nel nulla.

Nella borgata, inerpicata sui monti, qualcuno cominciava a rispolverare le vecchie leggende.

Tutti gli occhi, all’imbrunire, si appuntavano sul vetusto maniero che si stagliava contro l’orizzonte. Nelle sere  di bel tempo, quando il cielo si fa rosso – al tramonto del sole – l’effetto incuteva timore negli astanti: la sagoma nera del castello che si stagliava imponente e minacciosa su uno sfondo rosseggiante e cupo.

Anche sotto la spinta dell’opinione pubblica, il comando dei carabinieri dispose un sopralluogo nel castello. Era una dimora abbandonata praticamente in rovina. Il conte,  Osvaldo Romualdi, ultra-ottuagenario, si era trasferito da una sacco di anni a Roma. E trascurava l’avito maniero, così come i suoi affari. Come tutti i benestanti, viveva di rendita e si curava poco dei suoi possedimenti. Non aveva figli. Nessun erede. Il castello sarebbe finito alle opere pie. La discrezionalità ecclesiastica avrebbe, successivamente, deciso se abbattere il rudere , oppure ristrutturarlo in convento od ospizio di pellegrini. Nulla era previsto ed il sindaco della contrada non si era mai occupato del vetusto maniero, visitato – con tanta circospezione – da bande di monelli a caccia di nidi, da qualche viandante solitario che si rifugiava tra le mura in caso di maltempo. Occasionalmente, da balordi che però , essendo visti dagli abitanti come il fumo negli occhi, si affrettavano a tagliare la corda al più presto.

Era una borgata operosa di gente onesta, una sorta di maso chiuso per gli intrusi di ogni genere, soprattutto se i loro ceffi erano poco rassicuranti. Coi tempi che corrono, era il minimo che gli abitanti, gli sparuti residenti, non più di un centinaio, potessero fare.

Eppure, la giovane Edvige era scomparsa. I quotidiani genovesi, per qualche tempo,si erano occupati della storia, poi, col passare delle settimane il “feuilleton” non interessava più come i primi giorni. Non vi erano nuovi sviluppi e ciò per i giornalisti è il segnale che i titoli vanno ridimensionati, passando magari dalle nove colonne al trafiletto, per poi scomparire del tutto dalle pagine.

 Ancora più comprensibile il silenzio della televisione e della radio a livello nazionale.

Insomma, storia archiviata dopo mesi di silenzio. Almeno, così pareva.

La vicenda, però, non era conclusa. Il ritrovamento di un vestito di Edvige, proprio nella sala principale del castello misterioso fece riaprire le indagini. Si trattava del suo impermeabile rosso.

“Sì, è il suo. Ne sono certo. Lo indossava, proprio in quei giorni della scomparsa perché pioveva spesso…” Così il padre Giuseppe.

“Altro che ! Quell’impermeabile che le stava così bene era un mio regalo. Lo riconosco benissimo!” così il fidanzato Giorgio.

Dunque, concluse con sagacia il maresciallo dei carabinieri, Eduardo Mosca, la ragazza è stata trascinata da qualcuno nel castello…

Le indagini , però, si scontrarono con alcune ipotesi lacunose e poco verosimili.

Che Edvige potesse essere stata trascinata fino al  castello da qualche male intenzionato, a viva forza , era da escludersi nella maniera più assoluta. A parte il fatto che si trattava di una montanara piuttosto robusta che avrebbe opposto una strenua resistenza a chiunque volesse farle del male, era oltremodo difficile pensare che il misterioso aggressore fosse riuscito a farle salire, sotto costrizione, il ripidissimo pendio che portava al castello, senza che la ragazza non gridasse per richiamare l’attenzione della gente che a quell’ora era abbastanza presente nelle strade del borgo.

Certo, riconobbero in modo unanime gli inquirenti  a consulto nella locale caserma dei carabinieri, vi era sempre l’ipotesi di una ragazza costretta sotto la minaccia di un’arma , a seguire ( o a precedere) il rapitore.

Venne ammessa la possibilità che il delinquente fosse in possesso di un’arma: un revolver più verosimilmente. “Se gridi, ti sparo!” può essere una minaccia convincente per chiunque anche per la ragazza scomparsa.

In tal caso, avrebbe seguito, o meglio preceduto, l’aggressore che le avrebbe indicato il percorso.

“Andiamo al castello. E zitta, altrimenti sparo!”

Il maresciallo Eduardo Mosca, però, non era convinto, contrariamente agli ispettori giunti da Genova per esaminare il ritrovamento.

“Edvige, pistola o non pistola, non si sarebbe lasciata intimidire. La vedo male precedere, mogia, mogia, uno sconosciuto anche se armato. Certo, è una possibilità. Ma non mi convince troppo. Anzi, siccome conosco la ragazza, non mi convince per nulla!”

“Sì, obietto’ Gennaro Mancuso, l’ispettore di polizia che, con l’aiuto di un assistente, era stato designato per affiancare i carabinieri nella preliminare inchiesta, però bisogna riconoscere, che una pistola puntata alla schiena è sempre un argomento molto convincente anche per una donna forte, robusta, e magari coraggiosa!”

“Questo posso concederlo. Ma, possibile che nessuno abbia visto alcunché. Né il misterioso aggressore, né la ragazza percorrere il sentiero che conduce al castello ? E’ una stradina ripida, ma ben visibile dal villaggio. A quell’ora, tutti gli abitanti di X erano indaffarati, ma il borgo era comunque pieno di gente. Nessuno ha visto la ragazza dall’impermeabile rosso (la chiamo così per attirare l’attenzione sul colore vistoso dell’indumento), insomma, nessuno ha visto, quella fatidica mattina, Edvige recarsi verso il castello e tanto meno il misterioso uomo nero con la pistola” il maresciallo pronunciò questa frase quasi mormorandola tra sé e sé.

Eppure, doveva essere andata proprio così. Dovette ammetterlo, a malincuore.

Possibile che qualcuno avesse scorto i protagonisti dell’oscura vicenda e, pur vedendo quella scena inusuale, avesse poi deciso di tenere la bocca chiusa, non fosse altro che per evitare guai con la giustizia. No. Altra cosa inverosimile. Nella borgata X tutti conoscevano tutti. Figurarsi se stavano zitti, scorgendo Edvige salire verso il castello con uno sconosciuto al fianco. Figurarsi se le allegre comari di X non lo avrebbero notato ed opportunamente riferito a chi di dovere!

Il borgo dei pettegoli che per la prima volta taceva. Ipotesi davvero inquietante e poco credibile, appunto.

Ma allora, che cosa era accaduto ? Come direbbero gli odierni cronisti di “nera”, la polizia brancolava nel buio.

La verità venne scoperta da Gino Villani. Chi era costui?  Il Gino (come lo chiamavano in paese) era, per così dire, l’idiota del villaggio. Figlio del fabbro, aveva frequentato con scarso profitto le scuole elementari e, adesso, era apprendista cameriere nell’unico bar del paese che apriva i battenti all’alba per chiuderli al tramonto. Benché dotato di poco acume,  in quella occasione, rivelò un coraggio e doti intuitive notevoli. Fu la dimostrazione che in tutti vi è una scintilla divina e che quando quella scintilla si manifesta nessuno è escluso da quello che infatti si suol definire il giusto ragionamento.

 Gino Villani si recava,il lunedì,quando il bar era chiuso, nel castello disabitato per osservare i vari tipi di volatili che lo occupavano. Corvi, cornacchie, gazze, e – in primavera – le rondini. Un divertimento che il giovane si concedeva per rompere la monotonia della sua vita ben poco interessante. Era, per così dire, un ornitologo dilettante e senza pretese scientifiche.

Un giorno, al castello, scovò il nido di una gazza ladra e, sorpresa, in quel nido trovò tra vari oggetti lucenti un anello d’oro. Gino era un ragazzo povero ma onesto. Portò subito l’anello alla locale stazione dei carabinieri.

Il maresciallo dei carabinieri ebbe un’intuizione, seguendo la quale convocò in caserma il padre ed il fidanzato di Edvige. Mostrò loro l’anello. Il riconoscimento fu istantaneo. “E’ l’anello di fidanzamento!” gridarono all’unisono il padre ed il giovane Giorgio Diliberti che l’aveva donato ad Edvige.

Non vi erano più dubbi: la giovane era stata al castello e lì era scomparsa in circostanze misteriose.

A ritrovarla – per fortuna ancora in vita,anche se denutrita e malconcia – fu proprio Gino Villani.

Quest’ultimo non aveva mai creduto alle misteriose leggende riguardanti il  vetusto maniero misterioso.

Rivelò spirito pratico, ragionando su un fatto elementare. Aveva ritrovato l’anello di Edvige nel nido di una gazza. E’ noto che questi volatili vengono definiti ladri perché portano via tutto ciò che brilla, tutto ciò che è lucente, scambiando questi oggetti risplendenti per la corazza degli scarabei di cui, a quanto pare, si nutrono. Insomma, pensò Gino, la gazza ha rubato l’anello di Edvige. Questo è il motivo per il quale la giovane è corsa al castello in rovina, che abitualmente ospita uccelli stanziali e migratori. Cosa può esserle accaduto dopo ? Per Villani, nessun dubbio: un incidente che aveva impedito alla giovane di fare ritorno (con o senza il suo anello) nella casa paterna.

Quindi, doveva essere ancora lassù.

Ed infatti, c’era.

Venne ritrovata, a quasi un mese dalla scomparsa, dal buon Gino  in fondo ad un enorme pozzo, all’interno dell’antico castello medioevale. Era riuscita a sopravvivere, cibandosi di bacche selvatiche e bevendo acqua piovana. Fu necessario il ricovero in ospedale e quando, ristabilitasi,  poté tornare a casa, narrò la sua avventura ai giornalisti, accorsi da ogni parte d’Italia, per ascoltare il suo racconto.

Quella mattina fatale, per lavarsi le mani aveva appoggiato al davanzale del bagno l’anello di fidanzamento. Aveva scorto un gazza posarsi sulla ringhiera e, fulminea, portar via il brillante.

Evdige sapeva che gli uccelli selvatici nidificavano nelle mura dell’antico maniero. Si era lanciata all’inseguimento, indossando in fretta e furia l’impermeabile rosso. Non aveva notato nessuno in particolare a quell’ora mattutina.

Giunta al castello aveva frugato tra gli alberi a caccia dei nidi. Poi, era scivolata e precipitata nel pozzo abbandonato, nascosto alla vista dalle erbacce.

Pochi giorni dopo aveva udito i soccorritori che erano giunti sul posto per cercarla, ma era ormai afona, per avere troppo urlato,invano,  al soccorso.  Nessuno riuscì ad udire quel suo lamento roco e soffocato. E così i giorni erano trascorsi, uno dopo l’altro parendo eterni. Ma dal racconto di Edvige trapelò qualcosa che agli inquirenti apparve incredibile. Eppure gli accenti di sincerità della giovane ed il fatto che ella fosse ancora in vita, malgrado la terribile avventura, testimoniavano della veridicità del suo racconto apparentemente assurdo.

“Sapete chi mi ha nutrita per questo tempo,. Aiutandomi a sopravvivere ? Chiese Edvige, ad un certo punto, a coloro che la interrogavano, meravigliandosi di averla trovata in cattive condizioni ma ancora viva.

“Mi hanno aiutato gli uccelli!”

“Ma come è possibile ?” si meravigliarono gli inquirenti che ascoltarono, esterrefatti, il suo racconto.

“Ebbene, lo ignoro – esclamò la giovane – ma la prima a portarmi un pezzo di pane fu una gazza. L’aveva preso da qualche parte, chissà da dove. Forse dal forno di mio padre. Lo lasciò cadere dall’alto del pozzo ai miei piedi. Ed io potei mangiare, quel pane. Immaginate la mia sorpresa quando altre gazze si ripresentarono sul pozzo facendo cadere al suo interno pezzi di formaggio, di pane, di focaccia. Insomma, le gazze ladre rubavano per me il cibo nel villaggio. Solo grazie al loro insperato aiuto sono riuscita in qualche modo a nutrirmi, oltre che con le bacche e le more che crescevano nei roveti all’interno della cisterna.”

“Uccelli con il senso di colpa ? Ma cosa ci state dicendo, cara giovane? Siete scampata alla morte grazie alla vostra forte fibra. Anche se siete magra e smunta da far paura. Ma non volete farci credere che i volatili possano provare rimorso per aver commesso un furto e ripagare la derubata, come nel vostro caso. Insomma, la gazza ladra che aveva sottratto il vostro anello, dovrebbe essersi pentita ed aver comunicato alle altre gazze non solo il suo pentimento ma la sua volontà di riparare al torto da voi subito!”

“Credeteci o no le cose sono andate così. E non c’erano solo le gazze a volare in mio aiuto. Tordi, pettirossi, merli, corvi, insomma tutte le creature alate!”

C’era da crederle ? Tutto il villaggio ne discusse per mesi. C’erano gli scettici e coloro i quali – forse, su suggerimento del parroco – vollero credere al “miracolo dei volatili” salvatori di Edvige. 

Sulla storia non si pronunciò mai l’apprendista cameriere, Gino Villani. A lui era bastato pensare che Edvige doveva trovarsi ancora al castello e la ritrovò. Per fortuna, o per miracolo, ancora in vita.

Da quel giorno, il bar dove egli lavorava e dove venne assunto a tempo indeterminato, fu pieno di clienti ; anche questo fu merito del cameriere-detective divenuto in tutta la provincia una sorta di celebrità. Il buon Gino, come tutti ormai lo chiamavano in paese, fu l’ospite d’onore alle nozze di Edvige che ebbero luogo entro pochi mesi dal pieno ristabilimento della giovane.

Ai suoi nuovi clienti, desiderosi di conoscerlo e di stringergli la mano, il Gino  alludeva all’eroe dei racconti che preferiva, quelli di Sir Conan Doyle e del suo Sherlock Holmes e, narrando per l’ennesima volta il suo exploit ai curiosi uditori, esclamava per concludere la storia della sua solitaria e sagace esplorazione: “Elementare, dottor Watson!”

 Quanto ad Edvige, sul davanzale della  finestra della sua nuova casa da sposa non mancarono mai , al mattino briciole di pane uscite ancora belle calde dal forno paterno. E per le amiche gazze qualche perlina di vetro, qualche oggettino lucente fasullo da poter “rubare”. In tutta impunità.

 Franco Ivaldo

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