Racconto gotico

RACCONTI GOTICI di Franco Ivaldo
IL CIONDOLO DI NEFERTITI

 

RACCONTI GOTICI di Franco Ivaldo
IL CIONDOLO DI NEFERTITI

Nella Parigi ottocentesca della Belle Epoque, all’angolo della piazza della Madeleine, ogni sera al tramonto, una arzilla vecchietta, Juditte Parodi vedova Rodriguez , vendeva caldarroste in cartocci color ocra e, intanto, si riscaldava al fuoco che crepitava allegramente facendo arrostire le castagne. Quella sera all’imbrunire, il cielo invernale era di un blu purissimo senza nubi e cominciava ad arrossarsi come la brace sotto la padella piena di buchi maneggiata dall’esperta Juditte

 

Le castagne arrostite mandavano per aria un profumo irresistibile ,nella strada che dalla chiesa della Madeleine porta a Place de la Concorde. Continuava il via vai incessante delle carrozze e dei cocchi trainati da cavalli le cui narici spargevano fumo perché il freddo era pungente, ed erano sempre più numerosi i passanti che si attardavano davanti alla grande padella della venditrice di caldarroste reclamando il loro cartoccio colmo di deliziose castagne .

Juditte era popolarissima nel quartiere. Era nativa di Rapallo da genitori spezzini , i Parodi che avevano chiamato la primogenita Giuditta.

Da giovane, appena ventenne, Giuditta si era trasferita a Marsiglia, dove aveva sposato un un capitano di marina, Alphonse Rodriguez, un vecchio lupo di mare che aveva fatto per una vita intera tutte le rotte mercantili del mondo. Poi, rimasta vedova e siccome la vista del porto l’immalinconiva perché le ricordava il marito che non c’era più , aveva deciso di traslocare sotto i cieli bigi di Parigi. Con una modesta pensione per vivere. L’unico ricordo che le restava del marito scomparso da ormai dieci anni, era un ciondolo d’oro raffigurante il busto della regina Nefertiti (il cui originale è custodito nel museo egizio di Berlino) appeso ad una fragile catenina anch’essa placcata d’oro. Il capitano l’aveva acquistata per la giovane moglie a Port Said, durante uno dei suoi viaggi in mare nel Mediterraneo. Per Juditte quello era un tesoro, la teneva sempre al collo su un maglioncino color viola e i colori della Nefertiti risaltavano abbaglianti : iride degli occhi a mandorla , il verde smeraldo del copricapo della regina egizia,il giallo, l’ avorio. Splendido monile, così bello da venir elogiato tutte le volte dall’affezionata clientela. Juditte ne andava fiera e se lo stringeva al petto, ripetendo a chi la conosceva bene mentre versava le castagne nel cartoccio: “Un caro ricordo di Alphonse, buon’anima, che Dio l’abbia in gloria!”

Non l’avrebbe venduto per tutto l’oro del mondo. Ma quella sera, nel mese di marzo , una brutta sera davvero per la povera vecchina, la malasorte era in agguato sotto forma di un brutto ceffo, uno zingaro baffuto che nel quartiere della Madeleine nessuno aveva mai visto e che, sbucato da una via laterale, proveniente dalla stazione St.Lazare, si era repentinamente accostato alla fiamma su cui crepitavano le castagne di Juditte. Un gesto fulmineo ed anziché afferrare un cartoccio di marrons, lo zingaro aveva strappato dal collo della vecchina la collana ed il monile. La Nefertiti d’oro era sparita in un battibaleno. Trambusto indescrivibile, le grida di Juditte: “Al ladro ! Aiuto, al ladro ! Prendetelo!” …

Lo zingaro veloce come il vento che si lanciava verso rue Tronchet , inseguito da alcuni passanti, mentre Juditte rimaneva immobile come un statua di pietra con il dito indice alzato ad indicare la direzione presa dal fuggiasco ormai lontano. Solo due giovani erano riusciti a stargli dietro ed avevano finito per richiamare l’attenzione dei gendarmi.

Alla fine,lo zingaro era stato catturato, ma , purtroppo, del ciondolo d’oro più nessuna traccia. I casi erano due, dissero poi i gendarmi, alla sconsolata e tristissima Juditte. O quel dannato gitano era riuscito, come fanno spesso quelli della sua specie, a passare la refurtiva, in questo caso, la catenina e il busto della Nefertiti ad un complice, oppure – ipotesi ancora peggiore – l’aveva gettato via prima di essere catturato per non farselo trovare addosso ed aggravare la sua posizione. Così aveva potuto, con una faccia di bronzo senza pari, negare ogni addebito. Contro di lui vi erano ben poche prove. I testimoni l’avevano visto scappare. Nient’altro!

Sì, ci voleva la sfrontatezza di uno zingaro della sua risma per rispondere ostinatamente al capo della gendarmeria che l’aveva interrogato: “Io non ho rubato alcunché. Volevo le castagne arrostite. Per questo mi sono avvicinato a quella vecchia. Non so perché si è messa a urlare. Ma ho avuto paura di tutti quei passanti che non amano quelli come me e sono fuggito. No, niente ciondolo d’oro. Vi siete sbagliati…”.

E da quella posizione di pervicace diniego, non si era più mosso. Alla gente del quartiere, nei giorni successivi al furto, non era rimasto altro da fare che stringersi attorno alla povera Juditte per cercare di consolarla con regali e dimostrazioni di affetto. Ma per la poveretta quel caro ricordo non era rimpiazzabile per il suo valore affettivo, naturalmente. Juditte era ormai rassegnata: non avrebbe mai più rivisto la “sua” Nefertiti che le ricordava Alphonse, il suo capitano.

E quel pensiero le lasciava un grande vuoto nel cuore ed anche sul maglioncino color viola. Una gentildonna le aveva offerto un crocifisso d’oro da mettersi sul petto al posto del ciondolo egizio. Ma a parte la sacralità del simbolo, Juditta continuava a rimpiangere l’insostituibile principessa pagana. Non l’avrebbe rivista mai più , pensò con le lacrime agli occhi. Era un pò come se suo marito fosse scomparso di nuovo assieme al dono che le aveva fatto tanti, tanti, anni prima . E, con reminiscenza letteraria, la povera vecchia rivolgeva a sé stessa l’avvertimento fatto a Cesare: mese di marzo pazzerello. Guardati dalle Idi di marzo…e via dicendo in un misto di meteorologia e di storia delle premonizioni.

 

Ma che fine aveva fatto la Nefertiti ? Lo zingaro, vistosi inseguito e non avendo complici cui affidare – correndo – il prezioso monile , prima di essere acciuffato, con mossa fulminea non scorta da alcuno, aveva lanciato via l’oggetto rubato, vicino ad un mucchio di immondizie. Per tutta la notte e buona parte del giorno seguente, il busto dorato della Nefertiti era rimasto lì, vicino al cumulo dei rifiuti.

Poi al nuovo imbrunire con l’accendersi dei lampioni a gas, un raggio di luce cadde sul gioiello facendolo risplendere come una stella. Quel luccichio non sfuggì a Marguerite , la fioraia, che con i suoi mazzetti di violette in una cesta di vimini, stava compiendo il solito giro dei locali alla moda per offrire alle dame le viole del pensiero che generosi cavalieri si affrettavano a pagare con laute mance per la giovane fioraia. Marguerite si avvicino’ e raccolse il monile. Lo infilò in tutta fretta in una tasca dell’ampia gonna nera e proseguì il suo giro vendendo fiori com’era solita fare nei locali che hanno per epicentro il grande ristorante Chez Maxime.

Rincasando a notte fonda, Marguerite, al lume di una candela tirato fuori dalla tasca il ciondolo d’oro si mise ad ammirarlo, compiaciuta e contenta, ma la mattina dopo doveva avere un risveglio meno sereno.

Aveva appoggiato il ciondolo sul comodino e si era addormentata, a fianco del marito che già dormiva , facendo bei sogni sui tesori dell’ Egitto dei faraoni. Quando si risvegliò vide Giacomo, il marito, che di professione faceva l’oste ed aveva un localuccio di mescita dei vini nel quartiere di Saint Lazare, su tutte le furie. Teneva tra l’indice ed il pollice la catenina cui era appeso il busto di Nefertiti e facendolo dondolare come un pendolo sotto il naso della povera donna non ancora completamente sveglia, chiedeva con voce irata e contenendosi a stento: “E questo da dove salta fuori ?”

Marguerite si stropicciò gli occhi, guardò il marito, guardò il ciondolo e disse semplicemente la verità: “L’ho trovato per strada accanto ad un cumulo di rifiuti.”

“Ma quali rifiuti! Questo è un dono di qualche tuo ammiratore, qualche cicisbeo che ti gira attorno. Non negare !”

Marguerite sapeva, per esperienza , che una volta risvegliata con un pretesto qualsiasi la gelosia del gelosissimo consorte, non si sarebbe assopita tanto facilmente. Preferì lasciar cadere l’argomento. Ma Giacomo Troufeuille non era tipo da lasciarsi ammansire da un sottomesso, “adesso mettiti a tavola che preparo la colazione”.

“No ! Non c’è nulla da preparare. Qui, nessuno mangia, nessuno beve, se prima non salta fuori il nome del damerino, del bellimbusto, che ti ha regalato il monile ! “

“Ti ho già detto che l’ho trovato ! Non ci senti ? ” replicò la donna che cominciava a perdere la pazienza.

“E io non ci credo!”

Il buon uomo non aveva mai accettato in cuor suo di vedere la moglie piroettare attorno ai tavoli dei caffè e dei restaurants con tutto il bel mondo che c’era in giro. Lui era un povero vinaio, lei una povera fioraia e le due povertà messe insieme facevano in modo che la fine del mese veniva raggiunta senza troppe angosce, con i soldi che bastavano a far quadrare il bilancio, ma non a rassicurare il gelosissimo marito sui rischi che correva la sua onorabilità con una moglie carina in giro per i locali alla moda, i locali eleganti frequentati dal “Tout Paris”.

In realtà , nessun gentiluomo si era mai sognato di importunare Marguerite, anche perché di solito i gentiluomini erano accompagnati da altrettante gentildonne e una fioraia faceva parte dello scenario dei caffè e dei cabaret più eleganti come i camerieri, gli stucchi dorati , le luci soffuse delle abatjours rosse. Insomma, nessuno ci faceva caso.

Ma andatelo a dire all’ossessivo Giacomo , oste povero ma onesto, anzi povero perché onesto (era uno di quei rarissimi vinai parigini, che non annacquano il vino), ma geloso come Otello !

“Te lo ripeto per l’ultima volta: chi ti ha dato questa cosa…”

“E io ti rispondo che l’ho trovato per strada, ma potrei anche risponderti con la parola con cui Cambronne rispose agli inglesi a Waterloo!”

“E che rispose, ‘sto Cambronne ?” chiese allibito Giacomo che aveva sempre ammirato la cultura storico-letteraria della sua Marguerite, lui che era analfabeta.

“Rispose ‘merda’, se vuoi saperlo!”

“Accidenti ! Non solo mi tradisci con qualche damerino impomatato ma ti burli pure di me…”

“Io non ti tradisco, Giacomo, falla finita!”

Ma la collera dell’oste era ormai scatenata. Giacomo Troufeuille però non era mai stato un violento e non aveva colpito neppure con un fiore (è il caso di dirlo ) la sua bella fioraia. Ma qualcuno doveva pagare per l’offesa, vera o presunta che fosse. E chi ci andò di mezzo anche stavolta fu la povera Nefertiti.

Il monile volò letteralmente dalla finestra come un oggetto qualsiasi, un rifiuto da gettare.

Era il sacrificio rituale, l’unico, che potesse placare la collera dell’oste anche se il suo gesto, avventato, per contro, sollevò subito la giusta indignazione della moglie.

“Dannazione! Che hai fatto ? Hai gettato via un gioiello prezioso. Ma sei matto. Per una volta che ho la fortuna di trovare qualcosa di bello.”

Marguerite si era precipitata in strada, aveva cercato in ogni angolo, ma del ciondolo non vi era più alcuna traccia. Il broncio nei confronti dell’avventato consorte durò a lungo per intere settimane, ma tutto si dimentica e la coppia , tra una scena di gelosia e l’altra, dimenticò la Nefertiti.

 

Dov’era finito il ciondolo ? Su una carrozza , scoperta, trainata da quattro cavalli. L’occupante, un vecchio barone, non se n’era neppure accorto. Il monile, rotolando, era rimasto incastrato sotto un sedile della carrozza.

Lo ritrovò , un mese più tardi, un pover’uomo , uno stalliere, il cui compito era quello di accudire ai cavalli del barone e di pulirgli le due splendide carrozze.

Pierre Gregoire, lavando puntigliosamente la carrozza, vide brillare il gioiello e si guardò intorno.

Lo prese delicatamente tra le dita e se lo ficcò in tasca.

Aveva l’impressione di rubarlo. Essendo sulla carrozza del barone non poteva trattarsi che di un oggetto appartenente al suo padrone , o per meglio dire ad una dama che era salita sulla carrozza.

Strano però, pensò, lo stalliere. Il barone era vedovo, non gli si conoscevano frequentazioni femminili, aveva ottant’anni e certo aveva smesso da tempo di fare il galante con le belle dame della Belle Epoque.

Viveva solo, circondato dalla servitù , usciva di rado in carrozza con il cocchiere. Sempre da solo. Ormai, non riceveva nemmeno più i vecchi amici della aristocrazia parigina. Era avaro come una pigna. Nemmeno tanto ricco rispetto ad altri signorotti di campagna pari suoi. Insomma, teneva sottochiave i gioielli che erano appartenuti alla baronessa Clotilde. Lo sapevano tutti quelli della servitù, la vecchia cuoca Maria, il giardiniere Filippo, la cameriera Desdemona e lui, Pierre che si occupava dei quattro cavalli e delle due carrozze.

Insomma, l’uomo s’infilò in tasca il monile e decise di pensarci su.

Quella sera, al bistrot, dove si recava per farsi il solito bicchiere di birra del dopo cena, Pierre rifletteva.

Intanto, gli sembrava che tutti gli avventori del bistrot lo guardassero con sospetto. Non era vero, ma quel monile gli procurava un sentimento profondo di disonestà che lo metteva a disagio.

“Ladro, pensava tra sé, non sei altro che un ladro…”

Che fare ? Restituire il gioiello a quel vecchio taccagno del barone ? Ma se forse non era nemmeno il suo!

Quello se lo sarebbe aggiunto al tesoro di famiglia e buonanotte.

Figurarsi. Eppoi, c’era ormai il ritardo nella restituzione. Avrebbe dovuto spiegare dove l’aveva trovato. Lavando la carrozza. Si, ma dal lavaggio erano trascorse ormai dodici ore. Come spiegare l’intervallo ? Ammesso che una dama l’avesse perduto sulla carrozza del barone ottuagenario, cosa improbabile, quello comunque, non l’avrebbe mai restituito alla legittima proprietaria. Avrebbe fatto una smorfia, neppure apprezzando l’onestà del suo dipendente, un mezzo sorriso e via il monile nel panciotto e poi nel forziere dei gioielli a rallegrare ogni tanto la vista del vecchio avaro.

No, era davvero escluso. Non poteva mostrare il monile al padrone e dire : “L’ho trovato sulla carrozza”.

Non poteva neppure guardarlo o portarlo su di sé. Un oggetto femminile, che diamine! Gli stava già venendo un senso di colpa e mentre sorseggiava la sua birra, sbirciava con occhiate furtive gli altri avventori del locale come se tutti non pensassero che a lui ed al ciondolo d’oro che teneva in tasca.

Anche il patron del bistrot, quella sera, lo guardava con un’aria strana e sospettosa. Almeno così gli parve. No, non poteva andare avanti così. Ci pensò su per tre giorni e tre notti e all’alba del quarto giorno aveva trovato la soluzione: dare via il monile. L’occasione gli si presentò, quando percorrendo una strada parigina, scorse all’angolo della via una povera bambina che chiedeva l’elemosina con accanto un gattino bianco e nero addormentato al suo fianco.

“Ecco, come mandano i poveri bambini a mendicare, pensò , comunque io devo sbarazzarmi del ciondolo e quella mendicante ha la ciotola vuota. Se rientra a casa senza un soldo, si prende rimproveri e forse delle botte. Almeno riportando un oggetto di valore si eviterà le percosse e le grida di qualche sciagurato che la sfrutta nella mendicità…”

Senza ripensamenti, l’uomo lasciò cadere il gioiello nella ciotola e si allontanò rapidamente rispondendo con un grugnito al “grazie” automatico pronunciato dalla bimba.

Il rumore che il monile fece sul legno più che attirare l’attenzione della mendicante, poco interessata a tutto ciò che la circondava, richiamò l’attenzione del gattino che, risvegliatosi di buon umore ed in vena di scherzi felini, si lanciò sul ciondolo e cominciò a giocarci, tirandolo fuori della ciotola con una zampetta.

Il ciondolo cominciò ad essere sballottato da ogni parte e, quando, finalmente la piccola mendicante si accorse , scorgendolo, che si trattava di un gioiello da tenere bene a conto, la Nefertiti era già finita nella griglia di un tombino, sospinta da un’ultima zampata del gatto. Addio, ciondolo. Evidentemente, la principessa Nefertiti era destinata a non restare a lungo nello stesso posto.

La mendicante rimase a bocca aperta ed osservare il gattino che infilando la zampetta attraverso la grata metallica cercava di recuperare il gioiello ormai perduto.

La regina Nefertiti, venuta dal lontano Egitto, mai e poi mai, avrebbe immaginato di finire ,attraverso le fogne di Parigi, nella Senna , un grande fiume così lontano dal Nilo !

E, invece, le cose andarono proprio così.

Giù a capofitto nelle acque limacciose. Nessuno avrebbe mai potuto recuperare quel ciondolo d’oro se non colui che , per l’appunto, riuscì a recuperarlo: un pescatore.

Louis Vadour, con la sua canna da pesca, compì il miracolo. Catturò un luccio enorme e portatolo a casa e consegnatolo alla moglie affinché lo preparasse per cena si sentì annunciare, poco più tardi, dalla consorte Louise, impegnata in cucina a pulire il pesce prima di cuocerlo che c’era un monile nella pancia del luccio.

Ed ecco rispuntare la Nefertiti nella casa del pescatore. Era il giorno del compleanno dell’ unica figlia della coppia, Ermenegilda, vent’anni. Louis e Louise non avevano potuto fare un degno regalo alla giovane, per l’occasione, ma adesso, ecco che la fortuna veniva in loro soccorso.

“Ecco, Ermenegilda, annunciarono felici alla ragazza, questo gioiello è tuo per il tuo ventesimo compleanno.”

Nuovo cambiamento di proprietà, dunque, e la titolare del dono una volta messolo al collo non volle più separarsene. Andava in giro per Parigi con i suoi abiti modesti ma quel busto della regina egizia sul petto le conferiva un’aria da grande dama. E così Ermenegilda si pavoneggiava con lo splendente gioiello. Fino al giorno in cui, passando per la Madeleine decise di offrirsi alcuni centesimi di caldarroste.

E si fermò davanti a Juditte.

La vecchiettà notò immediatamente il ciondolo d’oro al collo della ragazza.

“Ma quello è il busto dorato della regina Nefertiti che mi fu rubato, proprio qui, da oltre un mese. Fu uno zingaro che me lo strappò dal collo… Lo riconosco !” esclamò la vecchina. Aveva pronunciato queste parole a voce alta ed i passanti si erano fermati incuriositi e sospettosi.

Ermenegilda, arrossendo, sentendosi al centro di tutti quegli sguardi , esclamò: “Io non l’ho rubato. L’ho ricevuto in dono dai miei genitori per il ventesimo compleanno che ho compiuto da pochi giorni… Mio padre è un pescatore e mia madre ha trovato il monile che ho al collo nella pancia di un luccio che il babbo aveva pescato nella Senna. Ma se lei è sicura che questo ciondolo è suo, ecco lo riprenda pure…” e , sfilandoselo dal collo, lo porse a Juditte che, presolo in mano, cominciò a rigirarlo da ogni parte. “Sì , è proprio il mio, non vi sono dubbi! Non capisco come sia finito nella Senna e nella pancia di un pesce. Ma che sia il mio ciondolo non v’è dubbio!”

“Allora, lo tenga pure. Sono lieta di restituire una cosa che le apparteneva…”

I passanti ed i curiosi fecero commenti di apprezzamento sul lodevole comportamento della giovane e si allontanarono.

Juditte era felice e commossa.

“Mi dispiace, era un regalo dei tuoi per il tuo compleanno. Forse…”

“No, no. Lo tenga lei. E’ il suo. Mi dice che le fu rubato e io le credo…”

“Sì, è un caro ricordo del mio povero marito buon’anima!”

“E adesso, le viene restituito.”

Ermenegilda stava già per allontanarsi con il suo cartoccio di caldarroste, dopo aver consegnato il gioiello alla sua legittima proprietaria, quando si sentì chiamare da Juditte: “Come ti chiami ? Non conosco neppure il tuo nome ?”

“Ermenegilda, signora…”

“Bene, Ermenegilda, da oggi in poi quando passerai a quest’angolo della Madeleine, vienimi a trovare e ci sarà sempre un cartoccio di caldarroste per te. Siamo d’accordo ? E quando vorrai indossare il ciondolo per una festa o per una ricorrenza qualsiasi, sarà sempre a tua disposizione. Consideralo anche un pò tuo. Ormai, esso appartiene ad entrambe…”

Ermenegilda, commossa, abbracciò Juditta e tutte e due, felici, scoppiarono a piangere.

Erano, naturalmente, lacrime di gioia.

Da quel giorno, la vecchina che vendeva le caldarroste, prese le proprie precauzioni per non lasciarsi più sfuggire quel gioiello che l’accompagnava ormai dalla morte del marito, tenendole compagnia.

Ma il destino degli egizi è davvero strano.

In una cupa serata d’inverno, soffiava un vento terribile, la vecchia Juditte appena arrivata in piazza della Madeleine capì che non era certo il caso di installare il braciere delle caldarroste con un simile tempaccio. Così, raccolte le sue povere cose, si diresse verso la Piramide del Louvre, anche con lo scopo di trovarvi un riparo.

La Piramide, il Louvre, tutti quei cimeli egizi, tutti quei ricordi, insomma, un violentissimo colpo di vento strappo dal collo della vecchietta il ciondolo d’oro e l’immagine di Nefertiti, tempestata di pietre preziose prese il volo. Forse aveva allacciato male al collo il prezioso gioiello. Chissà!

Fatto sta che Nefertiti se ne andò via col vento, s’involò, verso la grande piramide trasparente, verso il Louvre, verso i sarcofagi dei suoi avi, verso l’ignoto.

Il busto originale della Nefertiti, naturalmente, resta custodito nel museo di Berlino, ma il ciondolo della venditrice di caldarroste, beh quello, è finito per terra ai bordi della demiterrandiana piramide in vetro plexiglass. Chissà, in attesa che qualcuno nuovamente lo trovi e, forse un giorno, lo riconsegni a Juditte. 

 FRANCO IVALDO

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.