RACCONTI DI AVVENTURE

RACCONTI DI AVVENTURE di Franco Ivaldo 
 LA “TRINIDAD”CATTURATA DAI PORTOGHESI
 terza parte

RACCONTI DI AVVENTURE di Franco Ivaldo  

LA “TRINIDAD”CATTURATA DAI PORTOGHESI

 

Per ciò che restava dell’equipaggio dellaTrinidad, dunque, tribolazioni e patimenti a non finire. Prima in viaggio sugli Oceani e d’ora in poi come prigionieri maltrattati quotidianamente. Sottoposti ad un regime piuttosto duro, almeno agli inizi. Prima che gli interrogatori rivelassero ai portoghesi che, in fondo, quel pugno di prigionieri poteva nuocere ben poco al loro paese, al punto in cui si trovavano le cose.

Lisbona già sapeva che il passaggio era stato trovato. Ma era sotto il cinquantesimo parallelo Sud, latitudine estrema per i viaggi delle preziose spezie.  A cosa poteva servire quel paso così vicino a terre antartiche? Quali flotte commerciali avrebbero preferito la “rotta di Magellano” a quella dei portoghesi che circumnavigava il continente africano per raggiungere le Indie ? I cartografi di Lisbona, al corrente del tempo impiegato da Magellano per rispuntare ad Occidente con una partenza dall’Est verso le Molucche, avevano calcolato molto più esattamente del loro connazionale Ruy Faleiro, il grande cartografo ed astronomo che aveva aiutato Magellano come socio nella grande impresa, le dimensioni di quel Mar del Sur.

“E’ enorme. Non adatto a traffici commerciali dall’Europa, sulla via delle spezie. Questo è certo.” Avevano assicurato al re lusitano che aveva ritrovato il sorriso, anche perché si era rinsaldata ormai l’amicizia tra la corona portoghese e quella spagnola, visto che Carlo V aveva altre gatte da pelare con Francesco I di Francia e con i Luterani tedeschi. Ma tutto ciò, né la valutazione delle distanze da percorrere per le navi commerciali, né i destini politici del Vecchio Continente interessavano i marinai prigionieri.   

Pancaldo si ritrova in una cella, in compagnia di Giambattista  Poncero.  Sono entrambi nella fortezza di Ternate, assieme ad altri dieci compagni. Alte mura, costruite dai portoghesi per controllare tutte le isole circostanti ed un vasto tratto dell’Oceano. A protezione dei depositi che custodiscono ogni sorta di beni.

I prigionieri vengono fatti prima passare su un ponte levatoio, poi destinati alle celle comuni.

Poncero è un gigante buono. Genovese di nascita. Sembra prendere la prigionia con un certo qual spirito, ma le sue condizioni fisiche sono davvero inquietanti. E’ smunto, dimagrito in modo impressionante e non è più quella forza della natura che era apparso agli uomini degli equipaggi all’inizio della spedizione. Ma tutti sono provati in maniera indicibile per la lunga traversata del Pacifico, dopo quel lungo inverno australe,  trascorso in Patagonia e nella Terra del Fuoco. Oltretutto a quei tempi vi fu un’era glaciale , ma loro non potevano saperlo. Soltanto patirlo sulla loro pelle. Gelo, freddo e fame: questi gli immani  sacrifici che avevano dovuto affrontare, con i viveri rigorosamente razionati da un implacabile comandante.

La vita a Ternate, nella grande fortezza , ha le cadenze della monotonia carceraria e gli aspetti della disperazione per ciò che riguarda il futuro.

C’è tutto il tempo di riflettere e la riflessione non aiuta quei poveri diavoli, intrappolati nelle isole della Sonda, a sentirsi meglio.

Devono accollarsi, deboli come sono, i lavori forzati- quando sono fatti uscire dalle celle – per aiutare i muratori ed i manovali all’opera di completamento delle mura del forte.

“Lavorate, fannulloni! Siete stati anche troppo senza far nulla sulla vostra nave!” urla il guardiano armato che sorveglia quegli strani galeotti, che si reggono appena in piedi e sono costretti a portare pietre da costruzione.

Dopo quattro mesi, erano ridotti a scheletri.

Irriconoscibili, gli uomini che erano stati a bordo della Trinidad sentivano di avere i giorni contati. 

Poi, improvvisamente, qualcosa mutò. Per ragioni inspiegabili, forse per direttive venute dall’alto. Dall’Europa, da Lisbona.

Vi fu un primo trasferimento.

Pancaldo e Poncero vennero inviati alle isole Banda.

 

Subivano continui interrogatori da parte delle autorità portoghesi, che volevano conoscere per filo e per segno i dettagli di quella loro avventura e si facevano disegnare carte nautiche e mappe oceanografiche sulla base dei loro ricordi.

Gli ordini venivano da re Manuel del Portogallo in persona.

 

Non si era mai rassegnato al fatto di essersi lasciato sfuggire Magellano che, assieme a Ruy Faleiro, dopo aver sottratto carte e mappe segrete  appartenenti all’Archivio di Stato era andato in Spagna ad offrire i suoi servigi a  Carlo V, allora solo un re diciottenne.

In virtù della parentela tra i due sovrani, con lo sposalizio di Leonora, sorella di Carlo, da parte di Manuel, quest’ultimo avrebbe anche potuto fare affidamento sulla nuova unione per dirimere qualsiasi controversia fosse sorta con la Spagna. L’animosità tra i due Stati iberici, del resto, non assunse  mai i connotati di un vero e proprio conflitto . Era una rivalità tra cugini, nulla di più. Anzi tra due stati confinanti e quasi amici in nome del cattolicesimo, inteso da entrambi con un fanatismo assoluto. Papa Borgia non aveva voluto che i diletti figli del Portogallo e della Spagna si azzuffassero  per spartirsi le reciproche scoperte del mondo ed aveva fatto ricorso alla raya alla spartizione del globo terracqueo, tagliato in due come si taglia una mela. Ma fino alla spedizione di Magellano, nessuno conosceva la vastità e l’estensione delle terre da spartire, dagli oceani da dividere, insomma la mela era stregata e, soprattutto , misteriosamente ignota. Dov’era l’Ultima Thule ? Nessuno poteva dirlo o immaginarlo. Eppoi per un pontefice, dopo la scoperta colombiana, cominciava singolarmente a scricchiolare l’edificio tolemaico, e con esso la visione aristotelica di una terra al centro dell’Universo, con il sole e tutto il resto a girargli intorno.

Era anche l’epoca di Machiavelli, in fondo ; quando sia alle corti medicee, come in quelle degli Este o degli Sforza  o dei Gonzaga risuonava il motto “il fine giustifica i mezzi”, seguito da tutti i principi rinascimentali.

Non faceva eccezione Francesco I di Valois, non faceva eccezione Carlo V, che – sconfiggendo l’avversario francese a Pavia (“madre -scrisse Francesco ormai prigioniero del rivale – tutto è perduto fuorché l’onore”) – riuscì a conquistare il titolo conteso di “imperatore del Sacro Romano Impero”, annettendo anche i territori lasciatigli dal nonno paterno, Massimiliano I d’Asburgo.

Epoca dei cavalieri di ventura, anche sui mari (Andrea Doria), quando questi grandi condottieri  davano quasi in affitto i loro servigi, ora al Papa Clemente VII, ora alla Francia o alla Spagna.

Come diceva il popolino romano:  Franza o Spagna, purché se magna!

Ma questa indifferenza politico -strategica portò al Sacco di Roma da parte dei Lanzichenecchi.  Proprio a causa dell’inerzia e della noncuranza del papa della famiglia Medici. Carlo V dissociò le proprie responsabilità da quelle dei Lanzichenecchi, ma la barbara strage contro il popolo romano era ormai avvenuta. 

Manuel, il fortunato, dunque, si era sbagliato rifiutando a Magellano il finanziamento dell’impresa  marittima; aveva sentito il peso di quell’errore e non aveva perdonato quell’ammiraglio così fiero, il quale dopo avergli richiesto con sfrontata audacia una pensione ed un vitalizio per i suoi servigi militari in India ed in Africa, aveva avuto la presunzione di offrire proprio a lui di finanziare l’avventura di cui si sarebbe poi reso protagonista, servendo la Spagna.

Il re portoghese non amava Magellano, non ne sopportava il carattere altero; quell’uomo dalla fluente barba nera, con quell’aria da pirata, non si inchinava a lui con la dovuta deferenza, insomma, aveva intuito che quell’uomo, claudicante per le ferite ricevute, si reputava, forse, superiore. Col suo dannato orgoglio, dava risposte secche e quasi noncuranti dell’alto lignaggio che aveva di fronte, come si fosse trattato di un commilitone e non di un re. Non era  l’atteggiamento che un sovrano si attendeva dai sudditi, tanto meno dai suoi uomini di corte. I cortigiani erano untuosi e servili con i forti, arroganti  e prepotenti con i deboli. Magellano smentiva il cliché. E questo nessuna testa coronata l’avrebbe accettato mai.

Andrea Doria

 Così il re aveva respinto le sue richieste.

Salvo pentirsene più tardi, quando le spie lo informarono che, invece , Carlo V aveva trovato un accordo con l’ammiraglio transfuga e la spedizione alla ricerca del passaggio verso il Mar del Sur era quasi pronta. Da allora, ogni bastione portoghese nel mondo, ogni fortezza, ogni nave nell’Oceano Indiano ed oltre aveva ricevuto un solo ordine: catturare gli equipaggi delle cinque caravelle. A tutti i costi.

Nelle isole della nuova prigionia, Pancaldo rifletteva, comprendeva oscuramente  lo strano comportamento del re di  Cebu, isola  forse già toccata dai portoghesi; poteva, il raja Humaubon, forse essere stato contattato in anticipo dagli emissari di Lisbona?

  Magellano, in fondo, approdando in quelle isole non aveva trovato indigeni pronti ad accogliere come sovrano Carlo V, ma che già erano stati istruiti e corrotti dal potere e dall’influenza portoghese in quell’area.

La sorte di Magellano era segnata, comunque, perché neppure il re di Spagna, in fondo, era molto propenso  a riconoscergli certi diritti. Non per nulla gli aveva affiancato sulle altre caravelle dei capitani spagnoli. Uno in particolare, Juan de Cartagena, era un alter ego , una conjuncta persona. Il fiero hidalgo aveva un carattere del tutto incompatibile con quello del portoghese. Per il semplice fatto che entrambi avevano esattamente lo stesso carattere.

Da qui, si spiegava benissimo il navigatore ligure, il continuo timore di un tradimento che poi si era, infatti, verificato a San Julian, con quel colpo di mano finito male per i rivoltosi.  Già quella tremenda punizione inflitta da Magellano ai capitani spagnoli catturati e destituiti. Ma più che ribelli erano dei capi inquieti che volevano dall’ammiraglio risposte sulla rotta impossibili da ottenere, perché ad un certo punto nemmeno l’ammiraglio era così sicuro di dove stava andando. Dunque, rivolta e repressione, lì a San Julian.

Ne era stato testimone oculare, Leon,  ovviamente; ma preferiva non pensarci più. Troppo triste, troppo avvilente, quella punizione marziale e spietata del tutto incomprensibile allo spirito di un vero marinaio; egli rimaneva un sognatore, un amante della libertà di orizzonti infiniti e non ostacolati dalle asprezze della legge degli uomini, una porta aperta  sull’eternità fattasi oceano,  a contatto  con la misericordia divina. Sapeva per intuizione quotidiana che quelle leggi trascendenti predicate dai frati e dai preti, rivelate dalle Scritture, non si accordavano sempre con quelle sue attente osservazioni del cielo, dell’immensità oceanica, di quella terra ricoperta di acque sconosciute e misteriose, terra che sentiva vibrare, muoversi e forse – pensiero eretico ed impossibile – persino ruotare sotto la volta celeste. Non lo sapeva, non voleva ammetterlo nel più profondo della propria coscienza d’uomo, ma il dubbio della creatura immersa nell’oggetto creato, sperduta nell’infinito, era ormai sorto. Ignorava come esprimerlo. Aveva scienza nautica sufficiente , ma non conoscenze astronomiche tali da poter trarre conclusioni da vaghe sensazioni, più che spirituali quasi fisiche. Anzi, solidamente corporali. Ma il suo occhio non si era mai chinato su un cannocchiale di Galileo; le sue dita non avevano mai sfogliato una pergamena di Copernico. Questi giganti del pensiero verranno dopo di lui. Ma è arbitrario pensare che un uomo qualsiasi, protagonista di una simile avventura, nell’epoca delle grandi scoperte geografiche possa aver in qualche modo intuito l’indicibile, l’ineffabile, l’impossibile ? Senza poterlo esprimere, anzi neppure pensando di poterlo fare con parole che, in ogni modo,la Chiesa, la sua Chiesa avrebbe condannato come eretiche e l’Inquisizione punito col rogo. Ma il mondo tolemaico piatto e centro dell’universo, lo si voglia o no, dopo Magellano cominciava a cadere in rovina come una vetusta costruzione ormai inaffidabile e contraddetta dai fatti.

Leon rimaneva attaccato ai suoi dogmi, al suo credo e non avrebbe messo in dubbio una sola virgola delle Sacre Scritture neppure se – seduto sulla Luna – avesse visto con i propri occhi la Terra girare su se stessa e attorno al Sole. 

Ebbe un colloquio nella prigione di Banda con un frate portoghese, il suo confessore.

Jacinto Munez era un francescano, aveva cercato di convertire più indigeni che poteva, ma non apprezzava i metodi dei conquistadores.

Aveva compreso che il navigatore ligure era un uomo di fede e profondamente onesto, per cui, cristianamente, cercava di confortarlo come poteva.

Dimostrava parecchia umanità questo frate di Coimbra, nelle conversazioni con i prigionieri.

“Dunque, sei ligure…” aveva detto a Pancaldo.

“Esattamente sono savonese. Ma ormai non credo che rivedrò le torri della mia città…” rispose lui con un amaro tono di sconforto nella voce.

“C’è per tutti noi una provvidenza.” aveva risposto il frate.

“E’ quella che invochiamo noi marinai nel momento del pericolo!”

“Appunto. Non perdere la fede. C’è sempre una luce in fondo alla galleria più oscura. Una speranza che si accende nello sconforto del buio.”

Il frate  missionario parlò col governatore delle Molucche per alleviare nella misura del possibile la sorte dei prigionieri catturati sulla Trinidad.

“L’importante – replicò il governatore – è che non vengano resi noti i dettagli della loro avventura. L’Europa non è ancora pronta. I nostri informatori ci segnalano che una caravella compie una rotta verso Occidente.  E’ stata avvistata nell’Oceano. I nostri le danno la caccia. E’ da presupporre che solo due navi siano rimaste a galla. Una l’abbiamo catturata noi. L’altra cerca verosimilmente di doppiare il Capo e di rientrare a Siviglia. Potremo intercettarla. C’è da sperarlo in ogni caso, se vogliamo mantenere il controllo totale di questa parte del mondo senza concorrenti…”

L’uomo di chiesa rispose che i prigionieri non erano altro che marinai, in fondo, esecutori di ordini, non consapevoli e quindi non colpevoli. Ignoravano tutto della posta in gioco. Con loro, il Portogallo doveva mostrarsi clemente.

Non sarà così, proprio perché la “Victoria” finirà per attraccare a San Lucar de Barrameda e, quindi, si presenterà nel porto di Siviglia, con i suoi diciotto sopravvissuti.

Giungeranno sul molo  come una processione di spettri, smunti magrissimi e con le barbe incolte, con le vesti lacere; faranno il giro delle chiese, all’alba di quel giorno di salvezza, seguiti da una folla di curiosi, per rendere grazie al buon Dio di essere scampati alla morte. Penseranno ai loro compagni scomparsi per il resto della loro vita. E a quelli della Trinidad. Già, si chiedevano i diciotto sopravvissuti, che fine avranno fatto i nostri compagni imbarcati su quella caravella ?

E i rimanenti della Trinidad a loro volta, in fondo ad una galera, si chiedevano: Chissà se la Victoria sarà potuta tornare in patria ? Se lo chiedevano di certo Pancaldo ed il suo compagno di sventura, che intanto venivano trasportati  in giro per le isole in mano al Portogallo .

 Così, dopo vari trasferimenti, Leon, e Poncero, vennero rinchiusi in una prigione dell’isola di Giava.

Le peregrinazioni non erano ancora terminate. 

 Franco Ivaldo

CONTINUA 

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