RACCONTI DI AVVENTURE

RACCONTI DI AVVENTURE di Franco Ivaldo
DOPO LA SOSTA ALLE CANARIE, LA SIERRA LEONE
SULLE SPIAGGE DI RIO, RACCONTI PAUROSI.
Dodicesima e tredicesima parte

 

RACCONTI DI AVVENTURE di Franco Ivaldo
DOPO LA SOSTA ALLE CANARIE, LA SIERRA LEONE
SULLE SPIAGGE DI RIO, RACCONTI PAUROSI.
Dodicesima e tredicesima parte

 

 

DOPO LA SOSTA ALLE CANARIE,  LA SIERRA LEONE

Avevano lasciato il porto di Santa Cruz de Tenerife nelle Isole Canarie, con rifornimenti adeguati in acqua dolce e gallette. Poi vi fu quella puntata verso la Sierra Leone, per motivi che solo Magellano conosceva. Forse voleva sfruttare meglio certe correnti di cui conosceva l’esistenza per il salto dell’Atlantico, in modo più rapido. 

La navigazione , favorita da un buon vento da direzione Nord, fu  in effetti abbastanza veloce e spedita. Il mare non riservò altre sorprese mentre si muovevano in pieno Atlantico con la prua rivolta al Brasile . Almeno per qualche tempo fino a quando incocciarono in nuove tempeste. A bordo della Trinidad regnava una certa armonia, ma lo stesso non si poteva dire dell’equipaggio della Sant’Antonio. Frequenti liti scoppiavano a bordo ed il suo comandante  veniva spesso rimproverato da Magellano in persona, che lo convoca a volte a bordo della Trinidad per fargli le proprie rimostranze. Il capitano era spesso costretto a mettere gli uomini della Sant’Antonio, più indisciplinati e riottosi ai ferri nella stiva.

Giunsero a Rio de Janeiro il 13 dicembre del 1519. Il viaggio aveva avuto i suoi gravi contrattempi.

Nel corso di una bufera, tre marinai della Concepciòn e due della Santiago, erano precipitati in mare dai pennoni dov’erano saliti per aiutare ad ammainare le vele.

Non era stato possibile recuperarli, tanto le onde erano gigantesche

.L’Oceano Atlantico si rivelò burrascoso per un paio di giorni, mettendo le gomene a dura prova. Poi, vi fu una settimana di bonaccia e le caravelle in mancanza di venti a favore sembravano quasi immobili sulle onde, rendendo la vita a bordo monotona e fastidiosa.

Finalmente, videro apparire la costa. Si avvicinava il giorno di Natale. La sacra ricorrenza venne festeggiata a bordo, con preghiere e suppliche al bambinello.

Avevano fatto i presepi sulle caravelle. Poveri presepi, in verità, ma a bordo c’era paglia sufficiente e qualche utensile era stato usato per fare il bambin Gesù ,  la Madonna, San Giuseppe, i pastori,  qualche pecorella e gli asini, attorno alla grotta di Nazareth, ricreata a poppa delle navi.

Il presepe era stato ideato da San Francesco d’Assisi, nel secolo XIII. La ricorrenza riempì gli equipaggi di commozione ed essendo la gente di mare molto superstiziosa, interpretò come di buon auspicio l’avvicinarsi della  prima vera mèta, proprio durante le ricorrenze della nascita del Salvatore.

Il 26 dicembre 1519 le cinque navi attraccarono al porto del villaggio di Rio de Janeiro. Avevano per così dire festeggiato il Natale, il giorno precedente, con qualche galletta salata in più per tutti i membri dell’equipaggio.

Insomma, la spedizione procedeva come previsto nella misura in cui qualsiasi previsione fosse possibile per quegli uomini, partiti alla ricerca di un passaggio ad Ovest per raggiungere le Indie.

Si fermarono qualche tempo nel villaggio. Poterono in tal modo conoscersi un po’ meglio durante quella sosta che permise loro di ritemprarsi anime e corpi.

Leon rivide il suo concittadino: Martino de Judicibus, che era imbarcato sulla Concepciòn.

 “Come ti va, Martino? – gli chiese, notando che il  giovane appariva molto provato.

 Come ti trovi in questa impresa?  A pensarci bene forse non sarebbe stato del tutto male se fossimo rimasti a navigare in acque conosciute…”

Martino de Judicibus

“Sono imbarcato sulla” Concepciòn”, col grado di marinaio  subalterno. Ero entusiasta di partecipare a questa grande avventura, come ti avevo detto a Siviglia. Ma non hai tutti i torti quando dici che forse era meglio essere più prudenti. Sulle nostre caravelle si sono imbarcati anche brutti ceffi, gente che forse sfuggiva alla forca. Non che mi aspettassi di trovare il fior fiore dell’aristocrazia castigliana, intendiamoci, ma ho l’impressione che re Carlo V abbia dato ordine ai responsabili degli ingaggi  marittimi di non guardare tanto per il sottile per quel che riguarda gli equipaggi, o farei meglio a dire la ciurma. Forse era meglio se mi facevo frate !”

“Sai bene – rispose Leon – che in mare si trova di tutto: dall’avventuriero, al tagliaborse, da colui che è scappato dopo aver messo nei guai qualche fanciulla, altri che per delusione amorosa vanno in cerca della morte. Ma ti parrà incredibile… ci sono anche esperti navigatori. E gente degna di tutto rispetto… come noi!”

Entrambi scoppiarono in una fragorosa risata.

 Frequentandosi spesso, divennero presto grandi amici.

  Rinvangando nei ricordi d’infanzia, scoprirono di aver avuto conoscenze in comune  nella loro vecchia città. Quella Savona che evocavano, durante le loro conversazioni a terra, sempre con una punta di nostalgia..

Martino de Judicibus aveva  navigato anch’egli nel Mediterraneo, prima di decidere di prendere parte alla grande impresa di Magellano per sfuggire al saio dei francescani.

“Penso che tu ed io – gli disse ancora Leon- conosciamo il Mare Nostrum degli antichi romani come le nostre tasche. Ma qui è tutta un’altra storia.”

“ Le tempeste sono davvero tremende. Le costellazioni muteranno in cielo e punti di riferimento non ne avremo. ” rispose Martino.

“Ne faremo a meno. Certo    Magellano fa  paura solo a guardarlo, ma come ammiraglio sembra proprio che conosca il fatto suo.”

“Ma è terribile. Quando si infuria fa davvero paura. E se è per questo, anche quando non si arrabbia fa paura lo stesso. Tutti lo temono e girano il più possibile al largo.

“Si dice che abbia messo a morte degli insubordinati, facendoli per giunta squartare, ma questa , a mio parere è un’esagerazione. Noi gente di mare sappiamo inventarcene di balle e le spariamo grosse quando si tratta di fare colpo sulle fanciulle… A proposito, Martino ma tu sei sposato ?

“Io no. Ti ho detto che volevano mettermi in un convento di frati. Ti pare che anziché scappare andavo a sposarmi?”

“E io,invece, ho una sposa che aspetta il mio ritorno. Chissà quando riuscirò a rivederla.”

Leon non sapeva e non poteva sapere che la sua avventura sarebbe durata a lungo, molto più a lungo, di quella degli altri navigatori imbarcati sui quei cinque gusci di noce che dopo aver affrontato un oceano si accingevano ad affrontarne un altro, sotto molti aspetti ben più temibile del primo, malgrado il nome che gli sarà dato proprio da Magellano: l’Oceano Pacifico.                                                                       

SULLE SPIAGGE DI RIO, RACCONTI PAUROSI 

 Ricordi,  ancora ricordi. Belli o brutti. Alcuni tremendi. Altri quasi patetici. Al lume dei fuochi accesi sulle spiagge di Rio, i marinai si narravano storie spaventose di amazzoni che, in groppa a cavalli neri purosangue, usciti dalle bocche infuocate dell’inferno falciavano i guerrieri delle tribù nemiche. Impugnavano, le amazzoni, falci taglienti fatte con foglie di canna e rami di palma e con queste spiccavano dai busti le teste degli indigeni che osavano opporsi al loro strapotere.

“Le ho viste in una notte di luna piena galoppare sull’orlo di quella foresta, dietro quella piccola vegetazione di palmizi, assicurava il nostromo  della “Concepciòn” Vasco  Rodriguez “El Sordo”.

I suoi racconti, solitamente, venivano accolti con mormorii di incredulità tra gli uomini degli equipaggi.

Ma c’era anche chi – non si può mai sapere – si faceva ripetuti segni di croce per scongiurare la nefasta influenza degli spiriti maligni.

Compito duro, quello di scongiurare l’opera ed i malefici del Maligno di cui si occupavano egregiamente i cappellani di bordo, uno per ciascuna caravella.

Questo non era il compito di Rodriguez. “El Sordo” , non tenendo conto delle obiezioni continuava a narrare storie raccapriccianti. Forse, più che altro per esorcizzare le sue stesse paure ancestrali.

“C’è chi si è avventurato all’interno, in precedenti esplorazioni – proseguì – ed ha visto con i propri occhi guerrieri spaventosi, seminudi, con tatuaggi e con le facce dipinte di bianco, pieni di penne di pappagallo, che usano, nelle battaglie, tremende cerbottane. Le frecce sono intinte nel curaro, un veleno potentissimo.

Uno è colpito e zac. Muere de repente, nel giro di pochi secondi, muere!

 

Sangre de Dios!commentavano, inorriditi, i suoi uditori con le bocche aperte e gli occhi spalancati.

 

“Ma non è finita. – aggiungeva, compiaciuto di aver catturato l’attenzione generale “El Sordo” . quei selvaggi, dopo aver ucciso con le cerbottane i loro acerrimi nemici, tagliano loro la testa. Poi la gettano in una specie di calderone delle streghe, con un miscuglio di erbe magiche. Fanno bollire tutto sul fuoco. Le teste si rimpiccioliscono fino alle dimensioni di un pugno. Ma la pozione magica conserva le sembianze del volto dei guerrieri morti. Poi cuciono le bocche, forse per farli stare zitti per l’eternità.”

“Secondo una leggenda celtica che dalle desolate lande del Nord Europa è giunta, chissà come, in fondo alle foreste del Brasile, i tagliatori di teste di tutte le latitudini tagliavano le teste ai nemici perché credevano che quella fosse la sede dell’anima…”

“Dunque…” sollecitò un allibito marinaio che batteva i denti dalla paura…

“Dunque, concluse trionfante “El Sordo” – gli jivaros dell’Amazzonia credono come i Druidi dei Celti che la testa umana sia il rifugio dell’anima e nel timore che il guerriero, benché morto, possa diventare un avatar, un morto vivente, tagliano e non ci pensano più. Secondo le credenze druidiche questo era il motivo della decapitazione, praticata anche nell’antica Roma.”

“Ma siccome di spettri con o senza testa in giro se ne vedevano troppi , può darsi che i guerrieri di queste foreste abbiano dovuto prendere ulteriori precauzioni…”

“Vale a dire ?” interruppe il solito marinaio impaziente.

“L’ho già detto! – si spazientì il narratore – rimpiccioliscono le teste e cuciono le bocche…”

“Ma l’anima del guerriero ucciso può sempre uscire dagli occhi, dal naso o delle orecchie…”

“Sai che ti dico: vaglielo a dire tu stesso di persona ai selvaggi! “

“La prossima volta Vasco – disse un altro -a questo cantagli una ninna nanna così se ne va a dormire e non rompe…”

“Come siete permalosi!”

Ma “El Sordo” ormai era contrariato. E divenne il muto, per il resto della nottata.

Ma tra gli uditori, la discussione andò avanti ancora per un bel pezzo.

“Ma come avranno fatto i cacciatori di teste a conoscere i Druidi dei Celti ?”

“Dicono che navigatori vichinghi, guidati da un certo Erik il Rosso, siano giunti sulle coste della Groenlandia. Chissà, forse i continenti non sono poi così distanti tra di loro!”

Sì, dev’essere proprio andata così pensò tra sé Pigafetta, che aveva ascoltato in silenzio, divertito ma anche assorto, la leggenda paurosa narrata dal nostromo.    

C’erano più misteri in quelle terre sconosciute che nei labirinti e nei sotterranei del Vaticano

pensò, rabbrividendo tra sé pensando a quell’epoca così superstiziosa, ai roghi dell’Inquisizione, ed all’immensità di quell’oceano che, forse, si apriva su nuove incredibili conoscenze.

Forse siamo ad un bivio -rifletté tra sé il vicentino – e da un lato abbiamo l’abisso della paura e della barbarie e dall’altro la promesse contenuta nei Vangeli di un nuovo paradiso.

Ma, intanto, annotò sul suo diario una “voce” che aveva raccolto sul posto: i guerrieri di quelle terre selvagge, a volte, mangiavano i loro nemici uccisi in battaglia.

Il cannibalismo faceva rabbrividire il buon vicentino, che si guardava attorno con fare sospettoso. 

FRANCO IVALDO

CONTINUA

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