RACCONTI DI AVVENTURE

RACCONTI DI AVVENTURE di Franco Ivaldo

 
A SIVIGLIA PRIMA DELLA GRANDE AVVENTURA
I TRISTI GIORNI DELLA PRIGIONIA
Ottava e nona parte

RACCONTI DI AVVENTURE di Franco Ivaldo

A SIVIGLIA PRIMA DELLA GRANDE AVVENTURA
I TRISTI GIORNI DELLA PRIGIONIA
Ottava e nona parte

 Il viaggio verso Siviglia, intrapreso a bordo di una nave che faceva rotta per il Marocco, fu piuttosto lungo, ma  giunse in tempo per farsi ingaggiare non dagli emissari della corona spagnola, ma dal comandante in capo in persona.

Ebbe un colloquio con i consiglieri marittimi di Castiglia e con Magellano in carne ed ossa, uomo di aspetto imponente, con una barba nera, naso aquilino, sguardo d’acciaio.

Sapeva  che quello era un ammiraglio abituato a giudicare le capacità di un marinaio alla prima occhiata. Ma sapeva anche che quella non era la prima occhiata, dati i ricordi della spedizione in India.

 Egli volle sapere quali viaggi aveva fatto, sotto il  comando di chi, in quali periodi e con quali imbarcazioni.

Le rispose giunsero sicure e franche. L’ammiraglio comprese di aver di fronte un uomo esperto e un marinaio ostinato e coraggioso.

“Dunque comandante – disse ad un certo punto Leon – non mi riconoscete…Sono così cambiato?”

Magellano lo scrutò a lungo. Quasi con diffidenza, poi s’illuminò in volto: ”Tu qui a Siviglia? Una bella sorpresa,davvero!”

“Potevo mancare ?”

“No di certo. A Goa, in quel viaggio memorabile, con la tua perizia ci salvasti tutti da quella devastante tempesta. Sì, se non era per te, adesso, non saremmo qui a discutere. Non avevo mai visto tanta perizia al timone, mentre ondate gigantesche si abbattevano su quella nostra caracca, mi pare che fosse “U rey du Portugal” o qualcosa del genere! Ma dov’eri finito, diavolo d’un hombre ?

 Nella mia città, come faccio dopo ogni viaggio per mare.”

“Ah, sì Genua!”

“No, Savona….”

 E’ lo mismo ! Voi liguri siete curiosi, sempre lì a precisare il luogo esatto della vostra nascita. Io ho viaggiato così tanto che manco mi ricordo dove sono  nato. Credo a Porto, ma non ne sono poi tanto sicuro… Siete tutti così pignoli e scrupolosi voi genovesi!?. Ma tu Leon sei il nocchiero che ciascun comandante vorrebbe avere a fianco. Almeno io lo so per certo. Verrai sulla nave ammiraglia – gli disse, dandogli una manata sulla spalla quasi affettuosa ,trattandosi di Magellano – sarai il mio braccio destro  sulla Trinidad!  A te è inutile che io faccia il discorsetto che faccio a tutti gli altri per farli rigare dritti: che io non tollero errori e sono pronto a premiare i capaci ma anche a punire con estremo rigore coloro che sbagliano. I responsabili di tradimento e di crimini gravi vengono impiccati ai pennoni delle mie navi oppure, se preferiscono vengono squartati o abbandonati sulle rive di paesi inospitali, molto inospitali. Non dico altro. Mi pare che basti. Eppoi tra uomini di mare, queste cose è persino inutile rammentarle. Non è forse vero? ”

Pancaldo restò parecchio impressionato. Ma lui non era né un traditore , né un malvivente. L’ammiraglio si era ricordato di quando al largo di Goa la sua grande abilità aveva salvato lui ed un’ottantina di marinai  portoghesi. Ciò gli bastava.

 I preparativi del grande viaggio verso Ovest andavano un po’ a rilento. A Siviglia, erano convenuti marinai, avventurieri, mercanti da ogni parte della Spagna e dal resto d’Europa.

Magellano aveva ordinato ogni cosa con perizia e pignoleria. Aveva preso tutti gli accordi necessari con la Casa de Contrataciòn, con gli alti dignitari statali, i fornitori, gli artigiani, gli armatori i mercanti. La vita degli equipaggi era nelle sue mani. Era scrupoloso quasi da apparire maniacale.  

 Nelle acque del grande estuario,  sul Guadalquivir, galleggiavano le cinque  caravelle designate dagli armatori di re Carlo, per compiere quella che tutti speravano potesse essere la prima circumnavigazione del mondo, passando attraverso la via ignota dell’Occidente.

Una sera , Leon si recò al porto a vedere le cinque imbarcazioni. L’occhio esperto del marinaio, gli fece valutare le caratteristiche di ciascuna di esse: i classici tre alberi, vele quadrate con le croci cristiane rosse in campo bianco,caravelle veloci ed adatte per la navigazione oceanica, solide anche se non molto grandi, con novità nel timone, rispetto ad esempio alle navi veneziane. La Serenissima, certo, aveva armatori di tutto rispetto. Ma le caravelle decisamente erano più adatte all’oceano che non le navi delle Repubbliche marinare italiane impegnate su rotte mediterranee. Perché le “Colonne d’Ercole” erano ancora il mitico limite del mondo e, persino, molti dotti di Salamanca, malgrado i quattro viaggi di Colombo, ancora si chiedevano come mai le caravelle non fossero precipitate nel baratro, dopo aver superato le Colonne d’Ercole, vale a dire  il limite estremo di una terra rotonda ma piatta e, naturalmente, centro dell’Universo tolemaico, malgrado i seri dubbi che cominciava ad esprimere dalla Polonia un certo Nicola Copernico.

Ammirava le caravelle alla fonda. 

 La sua la “Trinidad” aveva una stazza di centotrenta tonnellate. Avrebbe avuto a bordo cinquantacinque uomini, agli ordini diretti dell’ammiraglio Ferdinando Magellano. Poi c’era la “Sant’ Antonio” ( 130 tonnellate) sessanta uomini, il suo capitano Juan de Cartagena, aveva fama di essere un duro implacabile con i subordinati; la “Concepciòn” (90 tonnellate) quarantacinque membri d’equipaggio, capitano Gaspar de Quesada; la “Victoria” (90 tonnellate), 42 uomini capitanati da Luis de Mendoza ed, infine la “Sant’ Jago” (60 tonn.) 32 uomini agli ordini di Giovanni Serrano.

In tutto, duecentotrentaquattro uomini, la maggior parte dei quali (175) spagnoli, venti i portoghesi, una trentina  gli italiani, alcuni interpreti africani ed asiatici delle nuove e vecchie colonie spagnole, diversi sacerdoti missionari. C’era anche un marinaio inglese. Perirà nel Pacifico. Non sarà il solo.

Si stavano caricando le provvigioni, che verranno minuziosamente annotate nei diari di bordo e che un resocontista vicentino, Pigafetta, appunto s’incaricherà di far conoscere ai posteri.

Vi furono delle lungaggini. La partenza venne posticipata di un mese. Correvano voci della presenza nella città fluviale andalusa di spie portoghesi. Vi era un clima di grande sospetto. Si sapeva che i portoghesi non erano disposti ad ignorare quella spedizione ed erano pronti (e se è per questo capacissimi) di mettere i bastoni tra le ruote o ,per meglio dire, il piombo nelle prue ed i fori nelle vele alle caravelle di Magellano. Vi furono agenti portoghesi che cercarono di fomentare un ammutinamento, ancor prima della partenza, ma il pugno di ferro di Magellano la stroncò sul nascere.

 In quei giorni d’attesa,  il marinaio ligure ebbe modo di conoscere meglio quelli che sarebbero stati i suoi compagni di viaggio. 

Trascorreva le giornate nella grande città fluviale, Siviglia, il cui porto era punteggiato da imbarcazioni e sulle case troneggiava la cattedrale della Giralda.

Bellissimo spettacolo, soprattutto al tramonto, quando i contorni neri della cattedrale si stagliavano contro un orizzonte di fuoco. Il pennello di Goya non sarebbe forse bastato a dar conto di tanta vespertina e solenne bellezza.

Una sera, passeggiando per i vicoli della città andalusa, Leon si imbatté in un giovane marinaio savonese che conosceva di vista per averlo incontrato decine di volte nelle stradine, nei vicoli di Savona. In quel dedalo di viuzze della città ligure che si dipanavano dalla Torre della Quarda fino alla Torre del Brandale, attorcigliandosi in un intrico fittissimo di viuzze fino alla Cattedrale, il Duomo abbellito dal papa mecenate Sisto IV della Cappella Sistina e poi da Giulio II secondo pontefice della illustre famiglia dei della Rovere. Anche il giovane apparteneva ad una casata savonese: era Martino de Judicibus.

 

 

 Una semplice, reciproca, conoscenza, “di vista” come si suol dire, ma la presenza di entrambi a Siviglia era significativa.

” Salve, marinaio! Martino mi sembra sia il tuo nome. Non dirmi perché sei qui, perché di certo non posso ignorarlo. Probabilmente, per le stesse ragioni per le quali ci sono anch’io.”

“Per il tuo stesso motivo, vero, concittadino ?” esclamò l’altro.

” Dunque, non sarò l’unico savonese a bordo!” ribatté con tono divertito Leon.

“Cosa ti credevi ? Di essere l’unico ligure che ama l’avventura” gli rispose il giovane, con tono canzonatorio, concludendo con una sonora e franca risata.

 Era di qualche anno più giovane, il marinaio semplice, rampollo di una illustre casata savonese. I de Judicibus  erano una famiglia di origini nobili, amici dei della Rovere che avevano dato due Papi alla Chiesa . Martino,destinato dal padre severissimo, ad una brillante carriera ecclesiastica (vescovo, chissà, forse un giorno cardinale) , non se l’era sentita di farsi monaco francescano ed un bel giorno era scappato di casa, imbarcandosi su una nave diretta al Pireo.

Né Savona, né i de Judicibus l’avevano più rivisto.

“Ah, è andata così!” – commentò Leon , al quale Martino aveva confidato il suo segreto di francescano mancato e di fuggiasco dei mari.

 “E’ andata così. Meglio sul mare che in un convento di frati. Eppoi, magari avrei dovuto fare pure l’inquisitore, chissà. Non fa per me!”

“Non l’hai scritto tu il  Malleus  Maleficarum., di cui tutta la gente parla con malcelato e superstizioso timore. Il “martello delle streghe”, lo chiamano. E’ vero che tutto ciò dà i brividi. Così non hai voluto farti frate, eh ? Motivi di mancanza di fede?

Oddio, se vogliamo metterla così..”

Sii sincero: dì piuttosto che ti piacciono troppo le sottane! Per darti ad una vita di castità. Non è così?”

“In un certo senso…” ridacchiò Martino. “Ma quanto alla castità. Non mi pare che Papa Borgia fosse proprio tanto casto. E se è per questo, neppure sua figlia Lucrezia, né l’altro suo figlio il Valentino. Ma anche di altri prima e dopo di lui se ne raccontano delle belle…”

“Sisto IV era generale dei francescani e, in quanto savonese, ti avrebbe sicuramente favorito come ha favorito suo nipote Giulio II. Comunque, se sui Papi se ne raccontano tante, Martino, tu raccontale se vuoi, ma sottovoce. Sono tempi in cui gli inquisitori non si fanno pregare per spedire al rogo la gente!”

” Non lo ignoro. Ma per favorire Martino de Judicibus candidato al convento o per consegnarlo, da eretico,  a Torquemada , gli inquisitori spagnoli devono prima scovarlo in fondo a qualche porto. E non credo che ciò avverrà molto presto. Comunque, io sono un buon cristiano. Credo in tutto. Nei miracoli, nella Vergine Maria, nella Resurrezione. Soltanto non me la sono sentita di farmi frate. Niente di male, vero ?”

” Hai perfettamente ragione. Quel che conta è credere in Dio. Anch’io ci credo. Noi tutti crediamo e siamo buoni cristiani.”

“Cambiando argomento, ho sentito dire in giro che ci saranno almeno una trentina di italiani in questa spedizione. Li conosceremo tutti ,uno ad uno, un po’ per volta. Non c’è fretta. Tanto chi può dire quanto durerà il nostro viaggetto! E adesso, andiamo a mangiare e a bere qualcosa in una taverna perché ho la gola secca e quest’aria sivigliana mi ha messo una fame da lupi. Martino sei mio ospite. Poi m’inviterai tu all’arrivo…”

“Allora, dovrai aspettare un bel pezzo.”

“Va beh. Non fa nulla. Andiamo a mangiare subito. Carpe diem, che del domani non v’è certezza!”

                                                                       

I TRISTI GIORNI DELLA PRIGIONIA.  

 

Antonio Pigafetta

 

 

Un’onda di pensieri, alcuni angosciosi, lo sommergeva,  nelle lunghe, interminabili, notti di prigionia. Fu proprio lì a Siviglia, rammentava con le lacrime agli occhi, durante i preparativi della spedizione, che alcuni dei principali protagonisti italiani della grande avventura ebbero occasione di conoscersi e di diventare amici.

Il vicentino Antonio Pigafetta, conosciuto anche come Antonio Lombardo, andava in giro tutto il giorno sul molo a prendere minuziosi appunti sui suoi diari.

Voleva proprio sapere tutto. Sulla calafatura delle navi per rendere stagno il legno affinché, ben cosparse di catrame, le tavole non lasciassero filtrare acqua da eventuali falle. Sulle mercanzie che venivano issate a bordo e caricate nelle stive. Dotato di una curiosità intellettuale prodigiosa, questo giovane dall’aria mite e dall’aspetto minuto, era un appassionato viaggiatore, studioso di matematica e di astronomia.

 

Vestiva elegantemente come un caballero, secondo la moda di quei primi anni del XVI secolo. Spadino al fianco, un abito bianco col collo alto. Aveva barbetta e baffi ben curati, capelli neri tagliati corti, naso aquilino,una fronte spaziosa. I suoi modi erano compiti, forse non esenti da una certa affettazione, o almeno ritenuta tale dalla rude gente di mare, il cui linguaggio era più diretto e franco, con meno fronzoli e giri di frase, insomma meno ricercato.

Pigafetta era un passeggero pagante e si era presentato in tal veste a Magellano. Quest’ultimo con il suo sguardo da aquila lo aveva squadrato dall’alto in basso.

“Ecco uno spocchioso rampollo di qualche nobile veneto – aveva pensato tra sé l’ammiraglio-, contando i dobloni d’oro che il viaggiatore pagante aveva sborsato belli e sonanti- lo prenderò a bordo della Trinidad così potrò tenerlo d’occhio. Visto mai che fosse una spia dei miei cari connazionali?”

 Il patto, comunque, venne concluso. Pigafetta aveva ottenuto il biglietto, diciamo così, per la spedizione attorno al mondo.

Il vicentino era al corrente di ogni risvolto politico di quella spedizione. Uomo di lettere, astronomo dilettante ed erudito, s’intendeva anche di politica e di affari di Stato. Sapeva benissimo che Manuel del Portogallo fino all’ultimo aveva cercato d’impedire  quella partenza. Aveva contattato persino Adriano d’Utrecht, il cardinale (futuro papa) per cercare in qualche modo di convincere l’ammiraglio portoghese ed il suo amico cartografo, Ruy Faleiro, a tornare a Lisbona e a ripensarci. Aveva inviato un emissario, Alvaro da Costa, alla corte di Carlo.

L’ambasciatore lusitano aveva ottenuto il risultato opposto a quello che si era prefisso, rendendo interessanti le proposte di Magellano a Carlo, più che mai convinto della necessità di scovare El Paso.

Quante cose sapeva il piccolo vicentino.  

Quella sera, nella taverna in cui  erano entrati gioviali ed allegri Pancaldo e de Judicibus  c’era anche lui.

Pigafetta che conosceva benissimo lo spagnolo ed il portoghese, riconobbe dalla conversazione che si svolgeva ad alta voce tra  Leon e Martino, due connazionali, almeno abitanti di quella Penisola a forma di Stivale, che pareva un vestito di Arlecchino, tanto era spezzettata sotto l’aspetto geo-politico, in Stati,  staterelli, principati, protettorati e repubbliche (almeno una: quella di Genova) .

Mi sembrano genovesi, riflettè Pigafetta.

Si avvicinò al loro tavolo e, senza altre cerimonie, si presentò.

Lo fecero accomodare e tra i tre ebbe inizio un sodalizio che doveva durare negli anni. Non capita spesso e, di certo, non a tutti  di ritrovarsi fuori dalla propria patria con l’intenzione di partecipare ad una simile spedizione verso l’ignoto.

“Non sei marinaio di professione vero ?” chiese Leon al nuovo compagno.

“Lo hai capito da che cosa ?” replicò, con un mezzo sorriso, Pigafetta.

“Dalle mani, ovviamente. Troppo curate. Sembrano quelle di un prete. Non di un marinaio. Guarda le mie e quelle di Martino, piene di calli.”

“Giustissimo: sei un buon osservatore!”

“Ma i viaggi ti interessano…”

“Al punto di dare soldi anziché riceverne…” ammise con franchezza il vicentino.

 

 

 

“Beh, in fondo, è questione di gusti – disse ridendo Martino – io per esempio amo i viaggi in mare, ma lo faccio come mestiere. E se non vedo i maravedis ed i ducati della corona spagnola, non parto.”

“Poiché è il tuo lavoro, mi sembra più che giusto-  ammise Pigafetta – quanto a me, ho intenzione di tenere quotidianamente un diario, prendendo accuratamente nota di tutto ciò che avverrà durante questa avventura. Non esito, sin d’ora, a definirla storica.”

“L’hai detto; per essere storica sarà storica!” esclamò Pancaldo, riconoscendo di essere stato spinto a Siviglia anche dall’enormità dell’impresa che quegli uomini ardimentosi si accingevano ad intraprendere, con un notevole sprezzo del pericolo e pronti a sostenere sacrifici immani.”

 

“E’ vero che essere un viaggiatore pagante non mi mette in gran buona luce -ammise Pigafetta – ma state pur certi che se il mondo, un giorno, conoscerà tutto di ciò che avremo compiuto in questa spedizione, sarà per merito mio.”

Avrebbe mantenuto la parola, consegnando alla storia il Resoconto della circumnavigazione del globo che sarà pubblicato un anno dopo il suo ritorno a Siviglia. Ma in quel frangente nessuno fece troppa attenzione alle sue parole. E lui stesso non poteva sapere che quelle pagine sarebbero passate al filtro di una rigorosa censura

che le avrebbe edulcorate, svilite, rese bugiarde sotto certi aspetti. Ma quello sarebbe stato il prezzo dell’imprimatur dettato dalla Spagna di Carlo V.

La serata andava avanti tranquilla, quando nella taverna sivigliana scoppiò una rissa tra alcuni brutti ceffi. Uno di loro, vero e proprio energumeno, si lanciò contro il tavolo dove era sistemati i tre italiani. Sferrò un pugno a Martino, che replicò per le rime. Ma a risolvere, la disputa intervenne un marinaio genovese che se ne era rimasto fino ad allora appartato in un angolo. Si chiamava Poncero. Afferrò l’energumeno e lo gettò per terra. Poncero era un vero e proprio gigante. Al suo apparire in scena, gli animi dei contendenti come per incanto si placarono.

“Intervento provvidenziale – esclamò Martino – ma forse ce l’avrei fatta da solo, o con l’aiuto dei miei due amici…”

“Meglio uno in più con questi tipacci dal coltello facile!” replicò Poncero. E poi tendendo la mano a de Judicibus, a Pancaldo e a Pigafetta:”Sono genovese. Mi chiamo Gianbattista. Qualcosa mi dice che siamo tutti qui per una certa spedizione. E che rivedremo spesso le nostre facce.”

“Indovinato!” esclamarono all’unisono i tre. E così gli amici erano diventati quattro.

    Si scambiarono confidenze, segreti, informazioni. Vi fu anche qualche  sfottò, tutt’altro che garbato di Poncero versus Pigafetta.

“Ma è vero che a Vicenza mangiate i gatti? Un veneziano, prigioniero a Genova, mi confidò che chiamavano i vicentini magnagati… Che c’è di vero ?”

 Pigafetta non si offese e non si scompose. Conservò il suo aplomb  e con  noncuranza replicò con una dotta esposizione delle varie ipotesi: “I miei concittadini possono anche essersi nutriti con gatti, riconobbe, ma devono averlo fatto in una delle abituali e non rare carestie che durante tutto il Medio  Evo afflissero le nostre belle città italiane. Possono aver appreso la ricetta dai veronesi, molto inventivi, oppure dai padovani veri maestri in cucina. Forse, scarseggiavano in quei secoli bui le quaglie e le pernici. Forse se li erano mangiati i dogi ed i duchi d’Este o i Visconti o i Medici di Firenze . I vicentini devono,forse, essersi cibati coi felini perché scarseggiavano i cani. Quelli se li erano già mangiati i veneziani, con una ricetta culinaria importata da Marco Polo dal Catai! Anziché i gatti,i vicentini avrebbero volentieri mangiato la trippa destinata ai felini, ma quella se l’erano già mangiata i genovesi. Forse,nel caso anche a Genova fosse scoppiata una qualche carestia ”

Un coro di risate accolse la battuta. Non vi era dubbio: un uomo di spirito ed uno studioso non pedante. Accomodante con gli amici.

Poncero rise più forte di tutti gli altri.

Ma la serata non era ancora finita ed ecco apparire, fuori della taverna dove avevano cenato, un altro savonese che gironzolava per i vicoli in compagnia di una bella sivigliana.

Que guapa!  Esclamò innocentemente Poncero.

Matteo de Gentil Ricci era  l’accompagnatore della bruna andalusa, si voltò di scatto e stava valutando l’opportunità se attaccare o meno briga col colosso Poncero. Poi scorse nella compagnia Martino . I due si conoscevano da lunga data, essendo entrambi rampolli di due  casate savonesi. Ed entrambi ribelli alla patria potestas.

“Martino, tu qui?!” esclamò Gentil Ricci, “sei scomparso da Savona e ti ritrovo a Siviglia…”

“Matteo!” rispose Martino altrettanto sorpreso.

Poi, vi furono le presentazioni e la bella sivigliana, Esmeralda, anziché un solo cavalier servente ne ebbe cinque.

Matteo  spiegò che, pur contro il parere paterno -il nobile Domenico Gentil Ricci, avrebbe voluto per il figlio una carriera da giureconsulto, che lo avrebbe proiettato nel gran consiglio cittadino per dirimere gli affari politici, economici e commerciali di una città in piena espansione, grazie al fatto di essere la culla di due pontefici. Matteo, però sentiva il richiamo dell’avventura sui mari.

“Più o meno il mio caso -osservò Martino – soltanto che i miei volevano che mi facessi frate! Io frate…”

La contagiosa risata di Poncero riecheggiò nella notte andalusa, seguita da quella dei componenti dell’allegra brigata, Esmeralda compresa, la quale pur non avendo afferrato  quasi nulla del dialogo dialettale tra  quegli hidalgos liguri, ne apprezzava nel giusto valore l’allegria e la spontaneità giovanile.                                                        

Franco Ivaldo

CONTINUA

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