Quid est veritas?

QUID EST VERITAS?

QUID EST VERITAS?

E’ la domanda che, secondo l’evangelista Giovanni, Ponzio Pilato, Prefetto della Giudea, rivolge a Gesù, che aveva affermato di essere venuto sulla terra per rendere testimonianza alla verità. La domanda originale (Gv 18, 38) è formulata in greco: Tì éstin aletheia; “Che cos’è la verità?”. L’espressione in lingua latina, che leggiamo nella Vulgata, contiene, secondo Agostino, la risposta, infatti la frase:  Quid est veritas?, anagrammata, diventa: Est vir qui adest, cioè “E’ l’uomo qui davanti a te”. Giochi di parole a parte, la domanda di Pilato continua a risuonare non solo in ambito  teologico e religioso: la parola “verità” è usata in molti ambiti diversi per lo più in contrapposizione a menzogna, falsità, inganno er similia.


Di fatto si parla comunemente di verità in ambito logico, storico, giuridico, etico, estetico, scientifico ecc. In ambito filosofico, il concetto di verità è stato messo in discussione soprattutto da quei pensatori appartenenti alla scuola o corrente ellenistica dello Scetticismo – sul quale ha ampiamente disquisito Marco Giacinto Pellifroni nel suo articolo “Riflessioni sul concetto di verità” pubblicato domenica scorsa su questa stessa rivista online e a cui rinvio chi volesse documentarsi in proposito – e da quei filosofi contemporanei che hanno elaborato e proposto il cosiddetto “Pensiero debole” anti e post metafisico come Gianni Vattimo, Pier Aldo Rovatti e altri autori tra i quali, come ricorda opportunamente  Pellifroni, anche  Giorgio Girard, il filosofo recentemente scomparso e più volte recensito per i lettori di “Trucioli savonesi” dal sottoscritto. L’attuale pensiero debole si richiama in particolare alla decostruzione del concetto di verità come “corrispondenza” del pensiero con la realtà delle cose messa in opera soprattutto da Friedrich Nietzsche e da Martin Heidegger. Fin dal suo saggio breve giovanile Su verità e menzogna in senso extramorale (1873), Nietzsche demolisce il mito o l’illusione dell’ oggettività del conoscere umano, anzi la stessa possibilità di conoscere  qualcosa per quello che essa veramente è: “Alla costruzione dei concetti  lavora originariamente, come abbiamo visto, il linguaggio e, in tempi più recenti, la scienza .


Fulvio Sguerso e Giorgio Girard

Come l’ape costruisce le celle e al tempo stesso le riempie di miele, così la scienza lavora incessantemente a quel grande colombario di concetti, cimitero delle intuizioni, costruendo sempre nuovi e più alti piani, consolidando, ripulendo e rinnovando le vecchie celle, e sforzandosi soprattutto di riempire quella costruzione a caselle innalzata fino alle stelle e di ordinarvi dentro tutto il mondo empirico, cioè il mondo antropomorfico”. In altri termini, secondo Nietzsche, noi conosciamo quello che conosciamo del mondo per mezzo del linguaggio e della logica, ma sia il linguaggio che la logica sono costruzioni umane (troppo umane) , che, per usare la terminologia kantiana, ci fanno conoscere sempre e soltanto i fenomeni (le apparenze)  ma non ci possono dire nulla sui noumeni (le cosa in sé), che rimangono  una x , inconoscibile, al di là del nostro linguaggio e della nostra logica: “Da Copernico in poi l’uomo rotola dal centro  verso una x”. In questa prospettiva la conoscenza della realtà e dell’uomo stesso non è che un’illusione che si riduce a una specie di moralismo che ha come suo tema l’uomo circondato da tutto ciò che è altro dall’uomo e che rimane senza nome.


 Martin Heidegger e Friedrich Nietzsche

Ma se la realtà, la “cosa in sé”, rimane inaccessibile all’intelletto umano che non può uscire dai limiti del linguaggio e della logica, viene meno anche il concetto della verità come corrispondenza del pensiero con la realtà, divenuta una x inconoscibile. Ma allora, se la realtà vera è inconoscibile, quid esr veritas? Che cos’è la verità? La risposta di Nietzsche è pragmatica: la verità è l’errore che ci aiuta a vivere. I concetti “veri” con i quali costruiamo il nostro mondo, non sono che metafore, immagini, figure retoriche tramandate da secoli e tradizionalmente riconosciute come vere che formano una ragnatela che noi stessi tessiamo come i ragni. Per Nietzsche tra i concetti e le cose non c’è nessun ponte, dunque la verità non può che essere una utile illusione umana, solo umana. In questa prospettiva si muove anche Martin Heidegger, il quale comincia le sue lezioni di Friburgo nel semestre invernale 1931- 32 su L’essenza della verità rispondendo alla domanda “Che cos’è verità?”.

 

Gianni Vattimo, Pier Aldo Rovatti 

Vale la pena di riportare almeno la parte iniziale della risposta di Heidegger: “La risposta alla domanda ‘che cos’è?’ ci porta all’essenza di una cosa …Infatti, che cos’è ad esempio un tavolo? Proprio ciò che lo fa essere quello che esso è, ciò che spetta a ogni cosa che è tavolo. Ciò che tutti i tavoli hanno  in comune fra loro, ciò che è comune a ciascun tavolo reale e a tutti i tavoli possibili, è l’universale, l’essenza: ciò che qualcosa è ‘in universale’…Quando ci interroghiamo sulla loro essenza, noi conosciamo già i singoli tavoli e così pure ogni tipo di singole cose”. E fin qui tutto è chiaro (o almeno così sembra). Ma torniamo alla domanda iniziale: che cos’è la verità? Quello che noi conosciamo non è la verità, ma solo singole, particolari, circoscritte verità…“…le chiamiamo così perché contengono qualcosa di vero. Ma in che cosa è ‘contenuto’ il vero? Che cos’è che, per così dire, ‘reca in sé’ il vero? Sono le asserzioni che abbiamo appena pronunciato (2+1 =3; la terra gira intorno al sole; all’autunno segue l’inverno; ai primi di agosto del 1914 scoppiò la prima guerra mondiale; fuori piove; in quest’aula è accesa la luce…e così via). Ogni singola asserzione è vera, è qualcosa di vero; è una verità”. Giusto; ma possiamo dire per questo di sapere che cos’è la verità in generale e in assoluto? In altri termini: “che cosa fa sì che ciascuna di queste asserzioni sia un’asserzione vera? E’ il fatto che essa in ciò che dice concorda con le cose e con gli stati di cose su cui dice qualcosa”.


 

Giusto; che cos’è allora la verità? Se le cose stanno così, allora “La verità è concordanza, e tale concordanza sussiste perché l’asserzione si conforma a ciò su cui asserisce”. Possiamo quindi finalmente dire che cos’è la verità? Per quanto è stato detto fin qui possiamo dire che la verità è “la concordanza fondata sulla conformità dell’asserzione con la cosa”. Ma esaminiamo un momento più attentamente questa definizione: “Dicevamo che la concordanza è l’essenza della verità. L’asserzione concorda con ciò su cui asserisce: ‘ In quest’aula è accesa la luce’. Ciò di cui parla quest’asserzione, ciò a cui essa si conforma, dev’essere tuttavia già dato in quanto criterio di conformità dell’asserzione; come potrebbe altrimenti l’asserzione conformarsi? (Corsivo mio). Ciò significa che dobbiamo già sapere che cosa sia e come sia ciò su cui asseriamo: sappiamo che in quest’aula è accesa la luce. “Questo sapere, però, lo abbiamo solo in base a una conoscenza, e la conoscenza coglie il vero, dato che una conoscenza falsa non è una conoscenza”. Tutto chiaro? Proprio per niente: se il vero è ciò che è conosciuto, appunto ciò che concorda con lo stato di cose, allora “L’asserzione concorda con ciò  che è conosciuto nella conoscenza: quindi con il vero. Con il vero? La concordanza dell’asserzione è allora il concordare: con un concordare? Una definizione dell’essenza – chiosa Heidegger – davvero esemplare! Verità è concordanza con una concordanza, e quest’ultima concorda, daccapo, con un’altra concordanza, e così via. E qual è la prima concordanza a cui risalire? Ciò che è dato per primo dev’essere uguale a un dato, ed essere quindi necessariamente anch’esso un concordante? Qui c’è qualcosa che non torna. Che cosa? Con la concezione della verità come concordanza non abbiamo ottenuto nulla di comprensibile, perché abbiamo discusso ogni cosa in maniera formale e senza un fondamento.


Ciò che si presentava come ovvio è in realtà del tutto oscuro”. In che cosa consiste questa oscurità? “Dicevamo: vera è l’asserzione. Sennonché, noi chiamiamo ‘vera’ anche una cosa o una persona. Diciamo ‘oro vero’, un ‘vero amico’. E qui comincia a vacillare la concezione  della verità come concordanza tra l’intelletto e le cose. Che cosa significa qui ‘vero’? Se essere vero significa concordanza, con che cosa concorda l’oro vero? Forse con una asserzione? Evidentemente no. ’Vero’ è in ogni caso un termine ambiguo. Ma com’è che noi diciamo ‘vere’ anche cose e persone, e dunque non solo asserzioni? Forse che ‘vero’ ha un significato rispettivamente diverso se si riferisce ad asserzioni o a cose? Qual è allora il significato autentico di ‘vero’ – quello che assegniamo alle asserzioni o quello in base al quale chiamiamo ‘vere’ le cose? Oppure nessuno dei due significati prevale sull’altro? Ma essi non hanno allora una derivazione comune da un altro significato di ‘vero’, che non trova affatto espressione nella concezione della verità come concordanza?”. Sono tutte domande che minano alla base la comune credenza che la verità in generale e in assoluto consista nella concordanza tra il pensiero e la realtà delle cose, o, se si preferisce, tra le nostre asserzioni è ciò su cui asseriamo qualcosa. “La verità intesa come concordanza (come carattere dell’asserzione) è pertanto ambigua, non sufficiente: delimitata in sé e indeterminata quanto alla sua provenienza – non è quindi compresa, e l’ovvietà è soltanto apparente”. Così per Nietzsche come per Heidegger le verità particolari e di fatto non rappresentano l’essenza della verità. Quindi rimane sempre attuale la domanda di Pilato  a Cristo: “Quid esr veritas?”.

   FULVIO SGUERSO

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