Quando i “centri culturali” non c’erano

Quando i “centri culturali” non c’erano

Una delle invenzioni diffuse di questi nostri tempi convulsi
è il “centro culturale”.

Quando i “centri culturali” non c’erano

Una delle invenzioni diffuse di questi nostri tempi convulsi è il “centro culturale”. Si tratta, in buona sostanza, di un gruppo di persone che vorrebbero fare qualcosa per proteggere o promuovere la cultura, soprattutto (a quanto mi par di vedere) in riferimento alla parola scritta, alla creazione artistica, alla valorizzazione del patrimonio locale, artistico e paesaggistico.


I soci si adunano periodicamente, elaborano progetti, propongono iniziative. Talvolta pubblicano libri o riviste, organizzano mostre e presentazioni. Quasi sempre i componenti di un centro culturale sono demotivati, non sentono il segnale di ritorno dalla gente comune. A fronte di una certa fatica e di una certa spesa per organizzare l’evento, spesso la gente non partecipa, attratta inevitabilmente dalla poltrona di fronte ad uno spettacolo televisivo.

E qui bisogna rassegnarsi: la cultura non è per tutti. Richiede sforzo, attenzione, partecipazione. Non si può mettere sullo stesso piano della televisione (ballerine, musiche, scenografie…) perché se no cessa di essere “culturale”. Così come la cultura non si può imporre, a meno che non si tratti di cultura di regime, ma qui cadiamo in un altro discorso.

Vien da chiedersi come facevano, una volta, che a nessuno era venuto in mente di fondare dei circoli, dei centri culturali. Forse oggi sentiamo l’esigenza di proteggere e promuovere la cultura proprio perché la sentiamo, in qualche modo, minacciata. E d’altra parte è una cosa felice e positiva che qualcuno abbia voglia di organizzare qualcosa in cui partecipano persone in carne ed ossa, con tutte le loro debolezze o pregi. Incontrarsi, parlare, scambiare idee, imparare ed insegnare, sono cose utili e sempre un poco trascurate.

Guardiamo allora al passato. Ripenso a quel che mi hanno raccontato in famiglia: gli avvenimenti registrati riguardano il periodo tra le due guerre e negli anni subito dopo la fine della seconda.


Il primo centro culturale era la stalla d’inverno. Là si ritrovavano amici e parenti. L’iconografia vuole che alcuni spoglino il granoturco, le donne filino la lana, i vecchi fumino puzzolenti sigari. Ma al di là di quel quadretto pittoresco io intravedo una struttura sapienziale fondata sull’età: il vecchio (i vecchi) sono la fonte del sapere, della conoscenza, della cultura. Sanno spesso leggere e posseggono i libri (pochi, in realtà. Tanto che si possono qui citare i titoli: “I reali di Francia”, “Guerino detto il Meschino”, “Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno”[1]). Mescolando l’esperienza di cose vedute nella loro lunga vita, con il narrato da altri: favole, leggende, storie spaventose o impossibili, cruente come solo certe favole sanno esserlo.

A terra, con pochi oggetti, i bambini giocavano, seguendo il filo dei loro giochi, ma prestando evidentemente orecchio alle vicende dei grandi. Nella penombra gli adolescenti si studiavano e si sorridevano: prime mosse, primi approcci di legami di là da venire.

L’altro centro culturale era il mulino, dove s’era costretti ad attendere, in gruppo, il proprio turno alla macina. Ce lo raccontano svariati testimoni, anche illustri (Leone Ginsburg, in un saggio da me già citato: “Il formaggio e i vermi”) quanto il mugnaio potesse far da tramite, da veicolo di idee, parlando con tutti coloro i quali si trovavano là ed avevano tempo di ascoltare.


L’ultimo centro culturale del passato è l’osteria. Si badi bene: non tanto nella sala dove pochi carrettieri e qualche ubriacone si fermavano per il tempo di un pasto o di un bicchiere, quanto nelle cucine, dove avveniva il vero e profondo scambio culturale.

Giovanni Rebora, illustre storico genovese, aveva fatto notare come seguendo le vie dei carrettieri si potesse tracciare una sorta di mappa gastronomica delle osterie. Un conducente si fermava (ad esempio) alla Corona Grossa, mangiava lo stoccafisso, che non aveva mai mangiato. Ne parlava con quelli del Gallo Nero (ad esempio), nella quale era abituato a fermarsi. Qui si davano d’attorno per apprendere e cucinare lo stocco. Per dire lo stocco. Poteva essere trippa, ceci, acciughe… Quante preparazioni ci vengono in mente caratteristiche delle povere mense semplici e potenti di un tempo… Chissà che anche le patate, i pomodori, il mais, abbiano viaggiato sulle stesse ali, portate dal porto (trafugate, magari, da una nave in arrivo dalle Americhe) e disperse su per i monti liguri.


In ogni caso dentro le cucine delle osterie ci lavorava la padrona, l’ostessa, abile cuocitrice e sfamatrice, e numerose aiutanti e inservienti, soprattutto fanciulle alla prima occupazione. Una mia conoscente, classe 1915, era “a servizio” dal medico del paese: fuoco, acqua al pozzo, pulizie, bucato, bambini, vecchi… Un lavoro colossale e durissimo: “Alla sera – mi raccontava – andavo un po’ a trovare un’amica che lavorava all’osteria, dopo cena facevano le tagliatelle per l’indomani. Eh, cosa vuoi, per star lì con le mani in mano che si fa brutta figura, ne facevo anch’io. E tanto ho imparato a tirare la sfoglia come si deve, che a casa mia nessuno sapeva farlo così bene”.

La cucina dell’osteria è veramente il grande centro culturale, nessun altro luogo ha un così alto potere di espansione e condivisione delle informazioni. Pare di immaginarlo quel posto, mistico, sacro, fatto di usanze e ricette segrete, un chiuso gineceo dove le confessioni non erano solo su quanto olio o quanto sale, ma anche sospiri e problemi di ogni tipo, uso delle erbe in cucina, ma anche per un malanno, o per un incantesimo.

Troppo spesso i centri culturali oggi vorrebbero essere “alti” e raffinati, artificiosamente complicati, astrusi. Allontanano, non diffondono, non resistono. Aspettando aiuti, finanziamenti, sovvenzioni, approvazioni, articoli su giornali, bandi di concorso.

E le cucine delle osterie, i mulini, le stalle, luoghi che hanno contribuito a formare la nostra cultura non ci sono più. O quelli che ci sono è meglio non frequentare.

Alessandro Marenco

[1] Si veda Marina Oggero Le carte piene di sogni, Testi e lettori in età moderna. Il Mulino, 2006

 

 

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.