Qualcosa sulla settima Operetta: “Dialogo della Natura e di un’Anima”

E’ un dialogo in continuità di contenuto con il precedente: infatti il tema è quello della felicità come miraggio, come stato d’animo mai raggiunto e mai raggiungibile.
E anche qui il basso fondamentale è quello della lamentazione ( meno ruvida e secca però, e con una maggiore accentuazione filosofica ) per essere costretti alla vita. Violenza di cui la Natura si dice estranea, essendo riconducibile a una forza ancora superiore: il Fato.
Ma non è il solo tema presente.
Appaiato e intrecciato ve ne è almeno un altro, con il quale non per nulla l’Operetta ha inizio:

NaturaVa, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi, e sii grande e infelice.

Qui, a differenza di altri Dialoghi ( a cominciare dal “Dialogo della Natura e di un Islandese” posizionato proprio a metà del libro a sancirne anche formalmente la centralità e a segnalare un giro di boa fondamentale della speculazione leopardiana ), la Natura è vista ancora come madre e non già come matrigna, e perciò verso le pene delle sue creature non mostra indifferenza ma solo l’impotenza di  aiutarle.
Il problema che si impone da subito è che essere una grande anima, essere mahatma, significa contestualmente dover soffrire; avere un carico di consapevolezza e di responsabilità che schiaccia anche se nello stesso tempo innalza.
Non si può essere consapevoli davvero, cioè responsabili, cioè, ancora, d’animo grande per contenere tanta conoscenza, senza essere infelici.>
L’Anima dunque alla Natura oppone una richiesta semplice, di consequenziale buon senso:

Anima – [ … ] saria di ragione che tu provvedessi in modo, che eglino [ gli uomini ]  fossero felici per necessità; o non potendo far questo, ti si converrebbe astenere da porli al mondo. 

A cui si sente rispondere che 

Natura – Né l’una né l’altra cosa è in potestà mia, che sono sottoposta al fato; il quale ordina altrimenti, qualunque se ne sia la cagione; che né tu né io non la possiamo intendere.

 Quello che invece si palesa, è che una persona, per il fatto medesimo di essere persona, non può salvarsi dall’infelicità che tutti accomuna. 
In modo speciale però soffrirà chi avrà un’anima di eccellenza, quella che sa vedere lontano e a fondo, e perciò riconoscere tutti i pericoli, le complicazioni, i danni, le molestie, le ansie che fare una cosa o non farla comporta rispetto al farne o non farne un’altra al suo posto; sicché desiderare e perseguire il bene, contro le intenzioni potrà produrre un male maggiore del male deliberato.
E perché ciò sia non evitato, che sarebbe impossibile, ma almeno attenuato nella probabilità di accadere, serve una lunga e faticosa speculazione che sappia tener conto dei mille effetti e cause delle vicende del mondo. 
I meno che riflettono sono i più che agiscono, senza peritarsi mai di provare se stessi nei panni degli altri per vedere se il loro agire li tocchi e quanto e come. E vivono così leggeri alla leggera.
D’altra parte come può sentir pesi sulla coscienza chi la coscienza non ce l’ha?

Nondimeno la fama, la gloria e la lode alleviano la sfortunata congiuntura d’essere consapevoli, se si vuole con l’immaginazione figurarsele riconosciute dopo la morte ( ché in vita prevarrà verso i più saggi e meritevoli l’invidia dei mediocri ) e magari per la durata di secoli nelle generazioni, e le loro ceneri riposeranno in un mausoleo per distinguerli dopo che si saranno estinti.
Salvo, s’intende, se non accadrà che per malasorte o per il loro essere andati ben oltre il punto da essere intesi, non restino grandi e sconosciuti.

Considerato tutto, è poca cosa, o meglio nulla e fumo, la fama. Essa non compensa l’infelicità:

Anima – [ … ] io concludo che tu, in luogo di amarmi singolarmente, come affermavi a principio, mi abbi piuttosto in ira e malevolenza maggiore che non mi avranno gli uomini e la fortuna mentre sarò nel mondo; poiché non hai dubitato di farmi così calamitoso dono come è cotesta eccellenza che tu mi vanti.   

Al che la Natura ribatte che non per odio ma poiché la miglior parte degli uomini giudica la gloria il maggior bene che loro competa, tanto che si logorano e crogiolano per averla, ha creduto di farla un’anima grande.
Ma l’Anima, cui ora sono chiari i mali della conoscenza, chiede, in nome del bene che la Natura le vuole, di essere allogata in quello tra gli animali il più imperfetto, o, in alternativa, in quello tra gli umani il più stupido.

Natura – Di cotesta ultima cosa io ti posso compiacere; e sono per farlo; poiché tu rifiuti l’immortalità, verso la quale io t’aveva indirizzata.

AnimaE in cambio dell’immortalità, pregoti di accelerarmi la morte il più che si possa.

 NaturaDi cotesto conferirò col destino.  

Fulvio Baldoino

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