Qualcosa sulla seconda Operetta: “Dialogo d’Ercole e di Atlante”
Quello che si prefigge Leopardi nelle “Operette Morali” è di dire cose profonde in punta di penna, con grazia e colore.
Lo fa ingaggiando personaggi mitologici e folklorici. Ma anche allegorizzando eventi, ideali, fenomeni e sentimenti.
Non fa eccezione questo Dialogo, scritto in tre soli giorni a Recanati.
In esso due giganti, ossia Atlante, il titano condannato da Giove a sorreggere il globo sulle spalle, ed Ercole, inviato dallo stesso Giove toccato da pietà, a sostituirlo per un breve intervallo tanto per dare al titano modo di riposarsi, constatano che la Terra ( leggasi i Terrestri… ) ha perso di peso e di spessore e che è divenuta una pallina leggera e fragile come la scorza d’un uovo.
Uovo vuoto. Silente. Nient’affatto promettente. Perché non c’è nulla che prometta di nascere da lì.
Si accordano allora per giocarvi a pallapugno, dimodoché maneggiarla e scuoterla possa fare anche da esperimento per capire se qualcuno ancora la abita e qualcosa da là sopra o da là dentro si farà sentire, o se invece è proprio ben morta, e lanciarla e colpirla non serva a risvegliarla da un sonno che, davvero eterno, non le consente più nemmeno di balbettare qualcosa e non le ridarà fiato e cuore.
Sta di fatto che così, ridotta di dimensioni e appiattita alla stregua di una cialda, sembra un orologio molle con la molla rotta come uno sfibrato orologio di Dalì.
Insomma, fuor di metafora, gli uomini non dicono più nulla che abbia sostanza, che valga la pena di essere ascoltato, che palpiti delle antiche vitali illusioni, e che infine abbia e dia quella falsa provvidenziale speranza perché il tempo non sia insensata ripetizione dei giorni, senza fine e senza fini.
Una partita a pallapugno finalmente sarà quel che ci vuole per constatare come stanno davvero le cose: se la Terra ospita solo morti o se qualche vivo ancora la calpesta.
E così Ercole e Atlante, dopo che questi se l’è tolta dal collo su cui fino ad allora l’aveva tenuta, giocano a tirarsela, vuota del tutto o vuota pressoché. Tanto leggera che il vento le impedisce di mantenere la giusta traiettoria secondo l’intenzione dei due giganti.
Ercole se ne accorge, e vi ricava una morale: “Cotesta è della Terra pecca vecchia, di andare a caccia del vento”, ovvero di ciò che è futile e vano.
Poi, è proprio il vento a fargliela sfuggire dalle mani e a farla ruzzolare.
Tuttavia da lei non si alza alcun lamento: è davvero morta!
Ora si sa che Atlante senza affatto affaticarsi, di nuovo se la rimetterà tra capo e collo, e fino a che Giove non lo perdonerà del tutto per la guerra che con gli altri Titani gli mosse.
Prima la Terra pesava, c’erano chiasso e parole, andirivieni, fermento e commerci. Viva e vegeta, aveva un peso; una sostanza, cioè, ed un valore.
Era insomma, quello dei padri, un mondo più ingenuo, e perciò più felice ( per quel che è concesso agli umani ).
Ma conclusa l’età delle favole antiche, ecco prevalere a mano a mano il nudo deserto della verità.