Qualcosa sulla prima Operetta: “Storia del genere umano”

“Storia del genere umano” è il racconto che apre “Le Operette morali”.  
Vi sono elencati un po’ tutti gli argomenti poi ripresi in vari modi nel resto del testo.
Naturalmente, però, oltre a quello di introduzione, questo racconto, secondo per lunghezza sui 24 che costituiscono il libro, ha anche una sua propria struttura e un suo specifico contenuto.
Il titolo dell’operetta è sintomatico del fatto che si parla in termini generali, perché non vi si narra un fatto e non si riporta un dialogo.
Si dice invece cosa è accaduto al genere umano; e in modo tale, ci fa intendere l’autore, che se si tornasse indietro e tutto ricominciasse, tale e quale ogni cosa si ripeterebbe, come se l’uomo fosse programmato per attraversare delle fasi imprescindibili, tutte mosse da due motori: la noia e la speranza.
Neanche gli dei, buoni magari no, ma bonari, e soprattutto Giove, di tutti il più grande, possono scongiurarle.
Sì, perché anche la speranza e non solo la noia, contrariamente al sentimento che evoca, rende difficile la vita degli uomini, ingannandoli fino alla prossima volta, in cui ci sarà di nuovo da sperare di raggiungere o evitare qualcosa. Segno che se una persona ulteriormente spera, indipendentemente dalla sua identità, non è contenta di quello che ha e che è. Perché non ha raggiunto i suoi obiettivi; oppure perché, avendoli raggiunti non li desidera più, e sono amori stanchi a cui manca la lontananza.

Il gioco complesso dell’alternarsi di speranza e noia, oltre all’intima dialettica esistenziale che  ognuna di per sé crea, porta Leopardi a dipingercele servendosi, afferma, di alcune notizie tramandate su certi popoli antichi, i quali risorto e riconfermato il tedio e la disistima della vita, si ridussero in tale abbattimento, che nacque allora, come si crede, il costume riferito nelle storie come praticato da alcuni popoli antichi che lo serbarono, che nascendo alcuno, si congregavano i parenti e loro amici a piangerlo; e morendo, era celebrato quel giorno con feste e ragionamenti che si facevano congratulandosi coll’estinto.
Giove allora, affinché la terra non divenisse prima o poi un deserto e fosse la prova del suo fallimento, cercò di rimediare donando agli uomini alcune cose: sofferenza, stanchezza, preoccupazioni, guerre e malattie,  affinché essi nel liberarsene provassero finalmente piacere; e alcuni fantasmi, tra cui Giustizia, Virtù, Gloria, Amor patrio e Cupidità.
Fu cosa mirabile quanto frutto partorissero [ è il caso di dirlo, visto che Leopardi soprattutto enfatizza la Cupidità ] questi divini consigli alla vita mortale [ il grassetto è mio perché si noti l’ossimoro beffardo e disarmato verso ciò che serve a far sì che si nasca per morire ] e quanto perciò queste maravigliose larve, furono riputate ora geni ora iddii, e seguite e culte con ardore inestimabile e con vaste e portentose fatiche per lunghissima età; infiammando a questo dal canto loro con infinito sforzo i poeti e i nobili artefici; tanto che un grandissimo numero di mortali non dubitarono chi all’uno e chi all’altro di quei fantasmi donare e sacrificare il sangue e la vita propria.

Fu così che l’umanità si ingannò. E tuttavia anche quel barlume di salvezza definitivamente le fu negato da quella, tra le larve, che gli antichi chiamavano Sapienza. La quale non vive di luce propria ma è ancella della Verità.
Lei ai più fortunati si nega. Gli altri li distrugge discoprendo di continuo dinanzi agli occhi la loro infelicità [ … ] che  per niuno accidente e niuno rimedio non possono fuggire, né mai, vivendo, interrompere.
La Verità, dunque, come unico modo per non sottostare alla dolce illusione della Speranza. Miraggio, questa ultima, del mondo, e perciò colpevole di pietoso inganno. 
Un fantasma che prenderà corpo poetico quattro anni dopo, in “A Silvia”, la cui protagonista, Silvia appunto, della Speranza è allegoria e vittima:

All’apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.

Concesse Giove però un sollievo agli uomini. Non salvezza ma consolazione. Un altro fantasma. L’unico a non poter essere vinto dalla Verità, che egli a volte non vede e a volte non vuol vedere.
Di tutti è il meno nobile perché sceglie i cuori più teneri e gentili delle persone più generose e magnanime e dunque più indifese, e li trafigge con la sua freccia di sagittario implacabile e bambino, senza che gli importi quanto di sorriso o di pianto si lascia alle spalle. 

Fulvio Baldoino

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