Qualcosa sulla nona Operetta: “La scommessa di Prometeo”

L’Anno ottocento trentatremila dugento settantacinque del regno di Giove, il collegio delle Muse diede fuora in istampa, e fece appiccare nei luoghi pubblici della città e dei borghi d’Ipernéfelo, diverse cedole, nelle quali invitava tutti gli Dei maggiori e minori, e gli altri abitanti della detta città, che recentemente o in antico avessero fatto qualche lodevole invenzione, a proporla, o effettualmente o in figura o per iscritto, ad alcuni giudici deputati da esso collegio. E scusandosi che per la sua nota povertà non si poteva dimostrare così liberale come avrebbe voluto, prometteva in premio a quello il cui ritrovamento fosse giudicato più bello o più fruttuoso, una corona di lauro.

 Comincia così la nona Operetta, che non ha nome di Dialogo, ma lo è lo stesso; con protagonista Prometeo, il titano preesistente a Zeus che impastando il fango aveva creato l’uomo ( e che in seguito rubò una scintilla agli dei per portarla ai suoi figli umani, e il segreto della conoscenza e della tecnica ad Atena ), e con antagonista Momo, dio del sarcasmo.

Premesso che la corona d’alloro non valeva il pregio di una berretta di stoppa,
e pertanto chi partecipò al concorso lo fece per passatempo, senza preoccupazione di vincere e di scrutare se le Muse davvero sentenziassero con saggio ed equanime giudizio, vi fu però uno, Prometeo, che fortemente desiderava la vittoria.
Sappiamo che ella arrise invece a tre olimpi: Bacco che scoprì il vino, Minerva che scoprì l’olio, e Vulcano che inventò la pentola di rame, cosiddetta economica, che in poco tempo e con poco fuoco basta a cucinare.

Prometeo mal’accolse il verdetto, sembrandogli che il suo stampo di terra atto a modellare i primi uomini superasse in valore di gran lunga ogni altra invenzione, del vino, dell’olio e  della pentola comprese, e se ne querelò con Momo, il quale della fondatezza della lagnanza non si disse convinto, adducendo certe sue ragioni.
Per dimostrargli che sbagliava, Prometeo lo sfidò alla scommessa di scendere insieme sulla terra dove, in un luogo a caso di ciascun continente, si sarebbero posati e avrebbero finalmente verificato se fosse vero o meno che l’uomo era fra tutte la creatura perfetta.
Pattuito il prezzo della scommessa, iniziarono il loro viaggio.

La prima tappa fu il paese americano di Popaian, dove v’erano diverse prove di vita, come sentieri, alberi tagliati, sepolture, ma non vita di alcuna persona. Solo solitudine, e per centinaia di miglia tutt’intorno, forse cagionata da qualche inondazione o terremoto o tempesta.
Giunsere però a un villaggio con persone che all’interno di un recinto mangiavano.
Camuffatisi da uomini i due dei presero a chiedere a colui che ne sembrava il capo che stesse succedendo.
– Si mangia, disse.
E con altre risposte ad altre domande spiegò cosa: i suoi figli e le sue mogli e figli e mogli degli schiavi, e poi gli schiavi stessi quando non avessero servito più a procurargli carne.

A questo punto avendo Prometeo il sentore di essere fissato con una tal guardatura amorevole, come è quella che fa il gatto al topo [ … ] si levò subito a volo; e seco similmente Momo.
Unitamente al quale dal Nuovo Mondo passò al Vecchio dell’Asia, nella città di Agra, dove una moltitudine di persone gremiva un campo con in mezzo una fossa zeppa di legna, e dove v’erano alcuni in procinto d’appiccarle il  fuoco.
Presso la fossa una giovane riccamente vestita e adornata con preziosi monili, cantava, danzava e si mostrava contenta prima di immolarsi.
Non, vennero a sapere, per riscattare bruciando l’anima del marito morto, che anzi odiava, ma perché colà era d’uso così per le vedove della sua setta.
I due convennero allora in un amen cambiar aria, e si diressero nell’Europa incivilita, ché, disse Prometeo, i barbari non fan testo.

Per Momo la cosa non era così piana, sembrandogli che se una creatura è perfetta, è perfetta. Ma se anche si concedesse che fosse così, altrettanto bisognerebbe ammettere che ad arrivare al grado massimo di civiltà, i popoli più civilizzati hanno impiegato tempo, tanto quanto sono gli anni dall’origine dell’uomo fino ai tempi prossimi, e tutto trascorso in barbarie, per quanto a grado a grado mitigata; e parimenti gli animali, non certo avvezzi allo studio e al galateo, e assai più barbari in questo dei barbari, tuttavia né mangiano la prole, né si gettano nel fuoco.

Confortato da queste e altre simili ragioni, Momo s’arrischia a dire se non sia il caso di pensare che l’opinione di Prometeo sul genere umano suoni più vera in questa forma: che esso è veramente sommo tra i generi [ … ], ma sommo nell’imperfezione, piuttosto che nella perfezione.

A ciò si aggiunga
che la civiltà umana, così difficile da ottenere, e forse impossibile da ridurre a compimento, non è anco stabile in modo, che ella non possa cadere; come in effetto si trova essere avvenuto più volte, e in diversi popoli, che ne avevano acquistato una buona parte.

Argomenti pesanti da smaltire, e tuttavia Prometeo certo avrebbe saputo trovare un qualche appiglio  e l’avrebbe pure espresso se nel frattempo non fossero arrivati sopra la città di Londra, dove si confusero con una gran massa di persone che si dirigeva ad una casa.
Vi entrarono e sul letto videro il proprietario esanime e due suoi figli piccoli. Aveva ucciso loro e poi se stesso, con una pistola che ancora teneva nella destra.
Prometeo prese ad indagare il motivo dell’accaduto chiedendo a uno della servitù. E seppe che il suo padrone era ricchissimo, stimato, riverito e non in ambasce d’amore, e che fu, come lasciò scritto, il tedio per la vita che l’uccise.
Ad un amico fidato raccomandò il cane, che non restasse abbandonato, ma non i figli; forse per salvarli dalla fatica del restare.

Momo, sarcastico da par suo, stava per dileggiarlo sui guadagni portati dal progresso e sulla felicità che ne seguiva, ed anche era in procinto di contestargli come all’uomo soltanto tra tutti gli animali può accadere di scegliere di sopprimere i figli e se stesso.
Ma Prometeo lo prevenne; e senza curarsi di vedere le due parti del mondo che rimanevano, gli pagò la scommessa.

Fulvio Baldoino

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