Qualcosa sulla dodicesima Operetta: “Dialogo della Natura e di un islandese”
Un islandese viaggiando per l’Africa incontra una donna di smisurate dimensioni, tanto che, seduta, appoggia il gomito a una montagna e intanto se ne fa schienale.
Si avvicina. La guarda. Vede che ha un volto a metà tra bello e terribile.
Anche lei lo guarda, impassibile. Fissamente.
Infine gli chiede chi è.
Le risponde che ha lasciato la sua terra d’Islanda. Non le dice perché, ma si capisce che è per fuggire da un luogo ai confini del mondo, battuto da venti freddi.
Un luogo di ghiacciai e di vulcani ( individuato da Leopardi per metafora dei mali fisici a loro volta però figura anche di quelli morali e metafisici a cui è esposto il genere umano ) per fuggire la Natura, e che ancora sta fuggendola, perché dopo averlo fatto per infinite contrade della terra, in cui ha cercato scampo di volta in volta dal caldo dei deserti, dai serpenti delle foreste, dalle punture degli insetti, dalle insidie delle montagne, dagli acquitrini delle pianure e, insomma, da tutto ciò che crea fastidio, tormento e paura, non è ancora riuscito a scamparne, e ancora perciò sta vagabondando allo scopo di trovare un posto dove ella non lo perseguiti.
L’immensa donna, a questo punto, gli fa una confessione: è proprio lei quella da cui lui fugge.
L’islandese se ne dispiace moltissimo, ma non si mostra intimorito al punto da non entrare con lei subito in una sorta di confidenza coatta, perché più della paura può il bisogno di avere risposte, e gli urge il raccontarle in una battuta, lunga come un monologo ( e che da sola copre oltre metà dell’Operetta ), come se non aspettasse altro, i suoi casi; insomma, quasi una confessione liberatoria dinnanzi a colei che è la fonte delle sue pene, ma è anche colei che gliene può finalmente dar ragione.
Le dice di come accortosi fin da giovinetto della vanità della vita e della stoltezza degli uomini, che si scontrano di continuo gli uni gli altri per l’acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che non giovano, decise, senza inseguir chimere, di vivere tranquillo e appartato affinché senza molestare non fosse molestato, mirando solo a scansare i patimenti che non fossero gli inevitabili incomodi necessari al quotidiano sopravvivere.
Poiché non per sua colpa ma per aver sperimentato come sia illusorio, vaso di coccio tra vasi di ferro, credere che mettendosi a lato per non offendere mai, gli altri non ti offendano quasi venendoti a cercare, scelse la più completa solitudine, che tuttavia non lo salvò: lontano dai villaggi, sprofondò nella Natura, così come gli si presentò nelle sue forme di marosi e tempeste, di terremoti e fulmini ed animali feroci.
Comprese che non poteva trovare lì quello che cercava.
Così lasciò la sua cruda isola e cominciò a girovagare per vedere se vi fosse un posto della terra in cui potesse non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire; un posto che come è fatto al deserto il cammello, e alla tigre la giungla, e al mare i pesci e all’aquila i nidi dei monti più alti, fosse fatto per lui. Ma invano.
Terminato il racconto dei suoi travagli e delle sue peripezie, minimo e tuttavia risoluto, fiero, in piedi, rivolto di nuovo alla Natura che dirimpetto giganteggia, prende a rimproverarla d’essere nemica di uomini e animali, e d’ogni cosa, tanto più in quanto sono opere sue, risultando così carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere.
E oltre a ciò, l’accusa di riservare a chi sopravvive, il tempo amaro e lugubre della vecchiezza; vero e manifesto male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma destinato da te per legge a tutti i generi de’ viventi, preveduto da ciascuno di noi fino nella fanciullezza, e preparato in lui di continuo, dal quinto suo lustro in là, con un tristissimo declinare e perdere senza sua colpa: in modo che appena un terzo della vita degli uomini è assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e agl’incomodi che ne seguono.
Lei lo gela: il mondo non è stato fatto tenendo conto della felicità o dell’infelicità di chi lo abita; e d’altronde lei non sa i suoi atti che conseguenze portino.
La replica dell’Islandese segna il punto nodale del Dialogo, e insieme una svolta fondamentale di tutta l’opera di Leopardi.
D’ora innanzi la poetica leopardiana cambia. Non più la Natura come madre benigna, ma matrigna. Ossia peggio che malevola: indifferente.
Se ( questo è l’esempio che l’Islandese le oppone ) uno mi invitasse con insistenza a casa sua, e alla fine io accettassi l’invito, ma là giunto poi fossi spregiato, bistrattato e offeso dal padrone di casa, e non venissi considerato se non per avere l’indispensabile a sopravvivere a un altro giorno di penuria e umiliazioni, e alla fine mi lagnassi del dover vivere in una stanza fredda e inospitale come una prigione, mi sentissi rispondere che quella casa non era stata fatta per me affinché mi sentissi ospite gradito, risponderei che allora non avrebbe dovuto invitarmi.
Dopodiché l’Islandese spiega il motivo di quell’esempio allargando il discorso dalla casa al mondo, dove lui ( e ogni altra creatura ) non ha chiesto di essere messo ma vi si è trovato a sua insaputa perché lì l’ha posto proprio lei, la Natura, alla quale chiede se non sia perciò suo dovere se non di mantenervelo felice, almeno di evitargli tribolazioni e patimenti.
La risposta della Natura è che l’universo ha bisogno per conservarsi di perpetuare il ciclo di produzione e distruzione, e che la sofferenza è inestricabile con esso e ad esso funzionale.
Una risposta che non può soddisfare l’Islandese, il quale infatti le chiede, poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?
Mai nel corso dell’Operetta la curiosità esistenziale ha raggiunto questo acme; e mai forse neppure in un altro punto di qualsiasi altra Operetta.
Quale sarà la risposta della Natura alla domanda che sulla Natura da migliaia di anni i filosofi si pongono?
Prende ora la parola la voce narrante, pervasa di ironia, non però per riferire le parole della Natura, che dà il suo responso senza pronunciar motto:
Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall’inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell’Islandese; come fecero; e presono un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui disseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa.<