Qualcosa sulla diciassettesima Operetta Elogio degli uccelli

Una manciata di righe.
Vi si dice che Amelio, filosofo-schermo di Leopardi, mentre sta leggendo all’ombra della sua casa di campagna, sente il canto degli uccelli.
Ne resta affascinato. Abbandona la lettura e si lascia andare ai pensieri che esso gli ispira, e che prende senza indugio ad annotare.

E’ un’introduzione che serve a fornire un minimo di contesto, e che, nonostante la sua brevità, ci dice già di due cose importanti per la costruzione del messaggio: è mattina ed è primavera.
Tempi entrambi del ricominciare, e del riprender lena a far da buon augurio al giorno e all’anno.

Così Amelio volentieri smette le pagine in cui gli animi tormentati cercano la ragione delle cose, e si abbandona senza vincoli alla viva esperienza di sensi e di emozioni, che gli muoveranno il cuore e il pensiero, e questi a loro volta la penna in un elogio di creature che volano e cantano, e che se per un attimo devono posarsi, non si riposano però dal trillare, dallo scuotersi, dal frullare e dal piroettare a guardar dall’altra parte del bosco e del cielo.

L’elogio che Amelio si accinge a dedicar loro guarda soprattutto ai piccoli volatili come i passeri, i fringuelli, gli scriccioli…
Per le ridotte dimensioni offrono un’idea di vivacità ed esuberanza che in altri come corvi, falchi, cornacchie o eleganti gabbiani, è come dispersa e diluita, mentre da questi minuscoli corpi stenta ad essere trattenuta, e prorompe elettrica, slanciandosi all’esterno in movimenti e suoni che ci pare ne escano e si dirigano invisibili nell’aria, e la vivifichino e rallegrino, contaminando tutto all’intorno.

Se questo si vede così bene, però, è perché la mattina e la primavera lo sollecitano.
Accadrebbe, è vero, anche in un altro momento della giornata e dell’anno. Ma attenuato e più timidamente.

E dunque Amelio da quali pensieri si fa portare provocato dalle chiassose aligere creature?
Lì l’Operetta non ragiona. Descrive, scruta, documenta, ammira. Un po’ sogna e benevolmente spia. I movimenti, gli atteggiamenti, i canti, le traiettorie, i modi, i cori. E’ del tutto priva di trama.<
Ovviamente non c’è ombra di dialogo, se non il chiacchiericcio continuo scambiato dagli uccelli in infiniti intrecci; che non lo smettono perché nel festoso bailamme riescono a capirsi e a rispondersi in una effervescente conferma reciproca dell’esistenza, acquisita e possibile, liberi come sono di viverla senza pensarla, di percorrerla senza sapere dove li porterà.
Il loro essere liberi è un  librarsi. Senza imporsi una direzione che non sia dettata dal momento. Attratti da un ramo o da una nuvola, dal cielo più azzurro o dal gorgoglìo delle acque di un fiume.
E’ mattino ed è primavera.
E questo basta perché sia festa dove tutto è un risveglio e una voglia, uno slancio che fa scoppiare in frulli, voli e trilli l’energia di cui il sole, sorgendo, li carica.
Dormono la notte, si acchetano nei giorni bui di pioggia e di vento, ma subito rinvigoriscono quando si rasserena.
Diversi per tutto, ma simili agli uomini nel…ridere. Non certo per un becco in luogo delle labbra, che non si incurva né mai potrebbe nella mezzaluna di una bocca all’insù, ma per il riso che si fa immaginare in un corpo, e che si dà nella sinestesia del ciangottìo del canto.
Simili, s’è detto. Ma in apparenza.
Quello degli uccelli è, per così dire, un ridere che è la vitalità di condividere la vita con la vita; quello dell’uomo è piuttosto e più spesso un ridere della vita: dei suoi casi strani e di chi ne è protagonista o comparsa.
Tante sarebbero le cose da dire sul riso, e porterebbero lontano, e perciò Amelio ( ma qui è più scopertamente Leopardi ) le lascia all’intenzione di uno scritto futuro dedicato; e lo dice. Ma già si sofferma ad esporre cosa egli pensa dell’uomo che ride; quasi un breve saggio, in due pagine che sono idee e prosa straordinarie, ma che anche rischiano di interrompere la continuità descrittiva, o comunque di un poco intralciarla.  

Gli uccelli dell’armonia che generano e del godimento che trasmettono attraverso il loro cantare e muoversi, non sanno.
Neppure si danno pensiero se esse abbiano o non abbiano uno scopo, e ignari, ci insegnano col linguaggio delle note, l’antidoto, l’ignoranza della noia. O ancor meglio, la coreografia di ciò che essa, nominata una volta appena e tuttavia convitato di pietra, non è.

Non più di tanto c’è da stupirsi se Leopardi, per breve tratto dimentico della Natura matrigna, la vede, mentre è rapito da tali pensieri, alma e preoccupata madre che gli uomini suoi figli vengano allietati:
 
[ … ]certo fu notabile provvedimento della natura l’assegnare a un medesimo genere di animali il canto e il volo; in guisa che quelli che avevano a ricreare gli altri viventi colla voce, fossero per l’ordinario in luogo alto; donde ella si spandesse all’intorno per maggiore spazio, e pervenisse a maggior numero di uditori. E in guisa che l’aria, la quale si è l’elemento destinato al suono, fosse popolata di creature vocali e musiche. Veramente molto conforto e diletto ci porge, e non meno, per mio parere, agli altri animali che agli uomini, l’udire il canto degli uccelli.

Fulvio Baldoino            

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