“Il rigurgito” dell’antifascismo”

La vera minaccia per la democrazia in Italia:
“il rigurgito” dell’antifascismo”
Il vecchio vizio bolscevico di criminalizzare il dissenso

La vera minaccia per la democrazia in Italia:
“il rigurgito” dell’antifascismo”
Il vecchio vizio bolscevico di criminalizzare il dissenso

 Secondo il grillino Di Battista, Dibba per gli amici, gli italiani sono “rincoglioniti”. Non farò come Pansa, che se n’è avuto a male, forse perché si è sentito colpito nel vivo, ma cerco piuttosto di capire il punto di vista del giovanotto. La battuta, al di là della volgarità, riflette uno stereotipo diffuso di autodenigrazione, che, come tutti gli stereotipi è insieme vero e falso. È falso come lo sono le generalizzazioni ma è soprattutto falso nel merito perché, alla faccia di quanti negano le specificità e le peculiarità non solo culturali ma anche genetiche delle popolazioni, il popolo italiano ha in sé risorse intellettuali senza pari. È però anche vero, se si considera la cappa di apatia, indifferenza, povertà culturale, omologazione, che schiaccia il potenziale cognitivo, la creatività, l’energia spirituale delle generazioni che si sono formate dagli inizi degli anni Settanta. Non ci sono più differenze fra piccoli centri e grandi città, fra periferie e zone residenziali: il laureato si confonde con chi ha appena la licenza media, il giovane medico o il giovane avvocato non leggono più di un operaio e ne condividono gusti e atteggiamenti oltre all’abbigliamento. Ma non è una conquista: è semplicemente appiattimento. Un appiattimento che ha come risvolto il disinteresse verso la politica e fa il gioco di quell’infima minoranza di canaglie, psicopatici e psicolabili guidati dal Pd e dalle sue propaggini e organizzati nei collettivi studenteschi, nei circoli arci, nei centri sociali sotto le etichette dei Tav, dei pacifisti, degli ecologisti.

In barba al tempo edax rerum, al tempo che tutto travolge, e in barba al panta rei eracliteo, si perpetua la presenza di un’organizzazione capillare di picchiatori, di spaccavetrine, di teppisti, sempre pronta a impadronirsi della piazza, a intimorire l’opinione pubblica, specializzata nella guerriglia urbana e nell’attacco ai poliziotti, che are all bastards. Un’organizzazione che nei periodi di calma fa sentire la sua presenza sorniona con le scritte sui muri e quando il partito chiama, per esempio sotto elezioni o in presenza di un governo sgradito, è pronta a rispondere e a rompere teste in nome della pace, della non violenza e dei valori della democrazia e dell’antifascismo. Insomma, siamo praticamente nelle mani di questa canaglia, residuo e surrogato dell’apparato militare comunista postbellico, senza che la società civile sia in grado di isolarla e neutralizzarla, nell’indifferenza un po’ inebetita di italiani, come dice il grillino, “rincoglioniti”.

Si dirà: è, o sarebbe, compito delle forze dell’ordine e dei questori stroncare il fenomeno. Non è proprio così. Gli scontri con i poliziotti non lo neutralizzano ma, al contrario, enfatizzano il ruolo e la presenza dei teppisti, anche perché questi sono appena sfiorati da interventi blandi, dosati dai loro stessi committenti, ai quali si affianca una magistratura che glissa su reati come la manifestazione non autorizzata, l’interruzione di servizio pubblico, l’aggressione al pubblico ufficiale, la violenza privata, e, in particolare, sugli articoli 417, 418,419, 420 del codice penale. In realtà quei teppisti sono i cani da guardia del sistema di potere della sinistra, che può contare sull’assenza di una controparte per effetto di quel “rincoglionimento” non so se temuto o auspicato dal Dibba. Se governo e maggioranza non fossero collusi coi teppisti – ma non sono semplicemente collusi, ne sono i manovratori – non ci sarebbero tante sedi illegalmente occupate, piene di oggetti atti a offendere, mai perquisite, le galere sarebbero piene, i tribunali intasati e tante famiglie “bene” dovrebbero vuotare i loro conti per risarcire i danni causati dai propri rampolli.

        

 Rimpiangere il fascismo è un’assurdità, dal momento che il fascismo non fu altro che la risposta all’eversione rossa e bolscevica a cavallo della Grande guerra. A dritta e manca si sente parlare di rigurgito fascista quando semmai si assiste al periodico riacutizzarsi della violenza sovversiva comunista, di cui la punta sono i centri sociali. I compagni contano sulla veridicità della dichiarazione del giovane boss dei Cinquestelle ma temono che la pacchia non durerà in eterno e mettono le mani avanti agitando il fantasma del passato.

Sarebbe un’operazione di pulizia culturale, politica e morale piantarla una volta per tutte non solo con la damnatio memoriae, che colpisce la Nazione tutta, non un partito o un singolo individuo, ma soprattutto col tentativo di respingere nel passato l’avversario del presente. Gino Strada invoca la chiusura di partiti e movimenti di “ispirazione fascista”. Forse allude a quelli che vogliono ficcare il naso nei suoi affari e nelle acque torbide del buonismo globale, forse allude a quelli che non solo intendono difendere i confini del Paese ma vogliono veder chiaro e senza fermarsi alla superficie nel business dell’accoglienza e nella balla del problema epocale e delle migrazioni apocalittiche.


 E, rovesciando la prospettiva, può essere utile mettere i puntini sulle i.

Sperare che un nuovo Duce metta tutto a posto è un’idiozia: quel che di buono c’è stato nel regime non è stato tanto merito del genio di Mussolini – al quale pure va riconosciuta la statura di grande statista – ma della liberazione dalla zavorra rossa, e non solo da quella: penso al ripulisti in Sicilia vanificato poi dagli americani, e all’aver messo a cuccia Vaticano e massoneria. Insomma, se si riesce a estirparne dal corpo i tumori che l’affliggono: la Chiesa, le logge, il cortocircuito fra salotti rossi e resipiscenze anarchiche, il Paese è perfettamente in grado di esprimere tutta l’energia intellettuale e la creatività del suo popolo e non c’è alcun motivo di sognare un ritorno agli anni Trenta del secolo scorso. Un uomo solo al comando è del resto una chimera: il dittatore si porta dietro un codazzo di clienti e profittatori di regime ed è sempre esposto ad oscillare fra delirio di onnipotenza e paranoia: volevi Mussolini e ti trovi Ceaucescu.


Quindi, in buona sintesi, io non sono né fascista né nostalgico: come studioso di storia cerco, con gli strumenti di cui posso disporre, di ricostituire la verità dei fatti e di strappare il velo del pregiudizio e della menzogna; ma considero orribile che se uno, appassionato del passato e portato, come qualsiasi essere umano, a investire emotivamente ciò di cui prende coscienza, prova simpatia per il fascismo e ammirazione per il Duce debba essere considerato fascista e come tale capace delle peggiori nefandezze. Il fascismo, come il Duce, appartengono alla Storia, possono essere resuscitati dalla finzione letteraria o cinematografica ma non dalla politica, che, per definizione, agisce, nel bene e nel male, nel presente. E questo vale anche per il caso di gruppi o formazioni politiche che si fregiano di simboli o di suggestioni che alludono al passato; il partito repubblicano si rifaceva espressamente a Mazzini ma nessuno gli contestava il proposito di organizzare attentati o colpi di mano come quello di Pisacane. L’aquila romana o il fascio littorio sono simboli della romanità e la circostanza che il fascismo se ne sia servito depone a suo favore: la difesa della Patria e la rivendicazione della tradizione sono titoli di merito incontestabili del regime mussoliniano, che, del resto, almeno in questo non faceva altro che raccogliere l’eredità risorgimentale. O forse i vari Mattarella, Gentiloni, Boldrini e ci metto pure Berlusconi, che paventano da buoni gastropatici il “rigurgito” neofascista, meditano di mettere all’indice e dare alle fiamme il Carme secolare insieme alla petrarchesca canzone all’Italia e al Dante imperialista che rimpiange la “donna di province”, con ovviamente l’irrequieto Leopardi ansioso di procombere per la Patria, il protofascista Carducci e il colonialista Pascoli che plaude alla grande proletaria che si è mossa e, ovviamente l’Imaginifico.


Detto questo occorre aggiungere che i bersagli degli strali antifascisti non pretendono di portare il testimone di quella tradizione né si richiamano in alcun modo ai miti, alle parole d’ordine o alle immagini del regime: non esiste alcun fil rouge che colleghi non dico Salvini ma nemmeno la Meloni al Duce della prima, della seconda o dell’ultima ora e, quanto ai metodi, la violenza, che per comodità chiamo anch’io squadrista, è monopolio esclusivo dei nipotini del Pci. Cosa ci sia di “fascista” nel volersi liberare dei clandestini che pesano sul bilancio dello Stato, minacciano la sicurezza dei cittadini, portano da noi la criminalità dei Paesi d’origine, qualcuno me lo dovrebbe spiegare. E non si parli di razzismo, che stava di casa in Inghilterra e non certo nell’Italia di faccetta nera o del nostro Guillet, l’eroico comandante Diavolo con i suoi compagni d’avventura dalla pelle nera, o del Duce “spada dell’Islam”. E i compagni abbiano almeno il pudore di non tirare in ballo l’antisemitismo, quando il partito di Togliatti non fece un fiato contro le leggi del 38 e nella mia città, che ospitava la seconda comunità ebraica del Paese, l’odio verso gli ebrei era la regola in quei quartieri popolari che ne sono il cuore rosso. Non solo fra la canaglia che imbrattava le case degli ebrei, gli “sporchi ebrei”: posso personalmente testimoniare il livore verso i miei compagni di liceo di religione ebraica che rodeva i futuri professionisti cresciuti al caldo del partito, quello comunista, ovviamente.


Ma se per fascismo s’intende, a torto o ragione, l’intolleranza, la volontà di mettere a tacere il dissenso, l’odio verso il diverso, il ricorso alla violenza fisica oltre che verbale, i veri fascisti sono i compagni di ogni gradazione e si annidano nel Pd, nei cespugli che gli sono cresciuti intorno, nella Cgil, nell’Anpi, nei circoli Arci, nei comitati studenteschi, nei centri sociali. Li abbiamo visti all’opera mentre scrivo queste note, sotto gli occhi dell’Eroe dei due mondi, con i pugni alzati, il coro rauco di Bella Ciao, mentre urlavano alla Meloni di lasciare la protezione dei carabinieri per poterle dare la lezione che merita, con gli sputi e i calci all’auto dei sui accompagnatori. Erano un centinaio di persone mandate lì dal partito e dalle sue filiazioni, per lo più portuali in pensione, un assaggio di cosa potrebbero fare se sguinzagliassero i centri sociali con le loro spranghe e le bombe carta. E chiedo: si è mai visto in Italia, dal dopoguerra ad oggi, nelle grandi città o nel più sperduto borgo, che una manifestazione dei compagni, un comizio di compagni, una qualunque iniziativa pubblica dei compagni siano stati non dico oggetto di aggressione o impediti con la forza ma anche solo molestati dai camerati? E allora dove sta di casa la democrazia, il rispetto per l’avversario, il rispetto per la libertà di opinione? Fra i compagni, fra i sacerdoti della costituzione e della resistenza, fra gli antifascisti in servizio permanente effettivo? Ma un po’ di ritegno, per favore!


Post scriptum

I compagni non hanno sense of humour ma qualche volta sono di una comicità irresistibile: a Macerata si sono visti, affiancati, due cartelli: BASTA ODIO e, accanto, ODIO LA LEGA.

    Pier Franco Lisorini

 Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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