Povertà di linguaggio e povertà di pensiero

Povertà di linguaggio
e povertà di pensiero

Povertà di linguaggio e povertà di pensiero

 A partire dalla metà dello scorso secolo sulla scia delle ricerche pionieristiche di Piaget e di Vigotskij si è affermata una vastissima letteratura sulla relazione fra pensiero e linguaggio, in ambiti disciplinari diversi ma interconnessi, spazianti dalla neurofisiologia alla robotica. È in effetti una relazione complessa sulla quale permangono molti punti oscuri ma nella quale quantomeno emerge l’evidenza di una interazione: i processi cognitivi sono influenzati dalle strutture logico-linguistiche che, a loro volta, ne sono espressione e devono adattarsi al loro corso. Per crescere e articolarsi il pensiero ha bisogno di parole e di strutture sintattiche; diventa tanto più complesso e potente quanto più dispone di strumenti che mentre gli consentono di esprimersi lo stimolano. È pur vero che la parola spesso imbelletta la povertà del pensiero o crea uno pseudopensiero, come succede con certi uomini politici e con qualche “intellettuale”, ma nella norma la parola è la levatrice del pensiero, lo fa venire alla luce, gli dà forma e lo fa crescere. Ed è reciprocamente vero che l’evoluzione del pensiero dà luogo all’evoluzione del linguaggio, ad una sua necessaria complicazione, che non significa perdita di chiarezza ma affermazione della pregnanza del significato, qualcosa che non è dato ma va ogni volta ritrovato.


Vigotskij e Piaget

 Senza lo stimolo della parola il pensiero tende a raggrinzirsi, si inaridisce, perde ogni vitalità, finisce per spengersi.  È il rischio che corrono le nuove generazioni, contro le quali congiurano l’inarrestabile deriva della scuola italiana, la marginalizzazione del Paese, la crisi del ceto medio, la sclerotizzazione della società, con la batosta finale di una gestione sciagurata dell’epidemia di cui la scuola ha fatto le spese. 

E continuerà a farle se, come temo, il nuovo ministro riuscirà nell’impresa di far rimpiangere l’Azzolina. L’ho sentito prodursi in una esternazione delirante: “se negozi e supermercati sono aperti bisogna che si aprano anche le scuole”, ha dichiarato; e fin qui si può dissentire ma non c’è niente di scandaloso. Senonché il Nostro prosegue: “bisogna che si aprano le scuole perché la scuola mai come in questo momento deve trasmettere i valori del vivere insieme, i valori dell’inclusione”. Capito? Il danno arrecato dalla compromissione dell’attività scolastica non riguarda l’istruzione – una cosa che spaventa tutto il resto del mondo, a cominciare dagli Stati Uniti – ma la sua funzione sociale, i valori dello stare insieme, i valori dell’inclusione. Il cerchio si chiude. Hanno chiuso con disinvoltura le scuole superiori e le università ma hanno tenacemente tenuto aperte le scuole dell’infanzia e le elementari e quando l’emergenza si è fatta più pressante piuttosto che le prime, che con la formazione non hanno nulla a che vedere, hanno pensato a chiudere le seconde, determinando un vulnus non facilmente riparabile nell’alfabetizzazione. Il cerchio si chiude: per questa gente la funzione della scuola è eminentemente sociale, serve come parcheggio, per evitare problemi alle famiglie che non sanno dove mettere i piccoli. Chiaramente la scuola ha “anche” una funzione di sostegno per le famiglie, ha “anche” una funzione di avviamento alla socialità ed è un microcosmo all’interno del quale si apprendono le regole e la disciplina che consentono ad una comunità di funzionare. Ma la scuola è prima di tutto il luogo della formazione, della conoscenza, della acquisizione degli strumenti per la crescita personale e la partecipazione attiva alla società. 


Patrizio Bianchi Ministro della Publica istruzione

La ricchezza delle nazioni è tutta nel sapere, in quello che gli americani chiamano Know-how, che in un passato che si allontana sempre più ha consentito all’Italia di mantenersi nel gruppo di testa del pianeta nonostante le dimensioni territoriali e la pressoché assenza di materie prime. Questo non interessa al ministro. Come non gli interessa, e forse non percepisce, il rischio che nel nostro Paese stanno correndo le nuove generazioni: non solo quello, già grave, di rimanere vittime di un gap scientifico e tecnologico, ma di andare incontro ad un decadimento cognitivo di massa il cui sintomo è proprio nell’appiattimento e nell’impoverimento del linguaggio, nei due canali dell’oralità e della scrittura.  La scrittura nasce dal bisogno di comunicare a distanza, a distanza nello spazio e nel tempo; senza l’intervento della scuola  questo bisogno è limitato alla sfera delle transazioni economiche ed è per il resto sostituibile con segnali iconici; conobbe un grande sviluppo con la diffusione della corrispondenza epistolare in tutti i ceti sociali anche come conseguenza dei movimenti migratori. Scrivere una lettera era un esercizio prezioso praticato in tutte le famiglie da persone di tutte le età.


Un esercizio che per un effetto alone incoraggiava il ricorso alla scrittura  per colmare la propria solitudine o dare libero sfogo ai propri sentimenti e alle proprie fantasie: c’è stato un tempo in cui non c’era collegiale che non tenesse un proprio diario segreto. Oggi sono ancora molte le persone che leggono, anche fra i giovani, ma è difficile trovarne qualcuna che scriva. Questo semplicemente perché non ce n’è bisogno. Il telefono ha soppiantato la lettera e WhatsApp le ha dato il colpo di grazia. Se poi qualcuno vuol lasciare traccia ci sono i muri. E in tutti i casi il registro si restringe, comunicazioni secche, vocabolario ridotto all’essenziale, ricorso massiccio alle abbreviazioni e a emoticon. Bisogna realisticamente riconoscere che si tratta di un processo inevitabile e forse irreversibile, tant’è che nella scuola, non solo italiana, gli esercizi di scrittura, creativa o no, cedono il passo alle prove strutturate, alle risposte brevi o addirittura alle crocette. Personalmente rimpiango più il riassunto del tema, strumento poco efficace per la formazione e inattendibile per la valutazione, nonché occasione spudorata di plagio e invito a mettere insieme banalità. 


Il problema serio è invece l’oralità, perché si può vivere e crescere senza scrivere grazie a una grande varietà di mezzi espressivi che fissano le idee ed esprimono la propria creatività ma i processi cognitivi e gli scambi interpersonali sono mediati dall’oralità e la loro complessità implica ricchezza di vocabolario e padronanza delle strutture morfosintattiche. Ne è consapevole Christophe Clavé, un dirigente d’azienda svizzero passato all’insegnamento, il cui articolo sul rapporto fra impoverimento del linguaggio e calo del QI pubblicato su una rivista di economia e finanza ebbe l’anno scorso una grande risonanza, almeno sulla rete. Ne riporto la conclusione: “Insegnare e praticare la lingua nelle sue forme più diverse. Anche se sembra complicata. Soprattutto se è complicata. Perché in questo sforzo c’è la libertà. Coloro che affermano la necessità di semplificare l’ortografia, scontare la lingua dei suoi “difetti”, abolire i generi, i tempi, le sfumature, tutto ciò che crea complessità, sono i veri artefici dell’impoverimento della mente umana. Non c’è libertà senza necessità. Non c’è bellezza senza il pensiero della bellezza”. Un monito che non sembra raggiungere i responsabili delle nostre istituzioni educative.


Già una volta ebbi a sostenere su questi Trucioli la necessità di tornare allo studio rigoroso della lingua latina almeno nei licei. Licei che ora sono in un limbo anche semantico: gli indirizzi avrebbero dovuto licealizzare tutta la scuola secondaria per effetto di un livellamento verso l’alto. Il livellamento c’è stato, ma verso il basso. E ci hanno rimesso tutti gli ordini di scuola. Se i licei si sono impoveriti, l’istruzione professionale si è dissolta e gli istituti tecnici, nati per le professioni “minori”, ora non sono né carne né pesce anche come contraccolpo della ridicola riforma delle università che ha creato le fallimentari lauree brevi. I compagni, con il loro malcelato disprezzo per il lavoro e i lavoratori, non hanno mai capito che non ci sono scuole di serie A e scuole di serie B. Un istituto professionale che fosse in grado di dare una formazione rigorosa a tecnici altamente specializzati e rispondenti alle necessità di un’economia avanzata sarebbe una scuola di serie A al pari del migliore dei licei classici. Senza questa consapevolezza ogni volta che si mette mano all’impianto dell’istruzione si fanno solo danni.

  Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione   

   Il nuovo libro di Pier Franco Lisorini  FRA SCEPSI E MATHESIS

 


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