PORTI – Quando i numeri dicono tante verità

PORTI
Quando i numeri dicono tante verità
 

PORTI
Quando i numeri dicono tante verità

La migliore raffigurazione di ciò che è accaduto in 20 anni di applicazione della L.84/94 la danno i numeri.

Numeri che raccontano di occupazione, di investimenti, di PIL; numeri che raccontano di applicazioni contrattuali e di contrattazione integrativa, di livelli salariali.

Come già scritto la L 84 ha introdotto, con l’art 18, il meccanismo di rilascio in capo a privati di concessioni di aree demaniali per l’esercizio della attività di impresa di loro competenza. La valutazione sulla congruità del rilascio è connessa alla valutazione di utilità pubblica che ne deriva.


PSA Voltri Pra

A questa categoria di concessionari, che sono definiti “Terminalisti”, si affiancano poi le imprese che agiscono nell’ambito portuale senza disporre di concessione, e che vengono autorizzate ai sensi dell’art 16, anche in questo caso sulla base di una valutazione che inerisce l’utilità sociale del rilascio e la compatibilità di quell’esercizio di attività con la realtà del porto nella quale si inserisce.

In questa seconda categoria troviamo sia attività di impresa classiche (imbarco e sbarco di merci), esercitate su aree pubbliche, sia attività di impresa finalizzate alla fornitura di servizi in appalto alle altre imprese terminalistiche.  

A questo universo di imprese si applica, integralmente, il CCNL dei lavoratori dei porti, che disciplina sia gli aspetti connessi ai minimi inderogabili salariali, che importanti aspetti normativi connessi all’esercizio dell’orario di lavoro, all’accesso al mercato del lavoro, al sistema di relazioni sindacali.

La norma definisce il CCNL come contratto di riferimento nell’ambito della attività di rilascio della concessione o della autorizzazione. E non è stata una passeggiata arrivare a questo risultato, davvero. Tornerò più avanti su questo aspetto.


Terminal porto di Genova

Sulla base di questo schema disegnato dalla legge, oggi troviamo qualche numero interessante.

Negli ultimi 10 anni, sino a tutto il 2013, il totale delle sole imprese associate ad Assiterminal, di gran lunga la principale associazione datoriale dell’ambito terminalistico portuale, ha prodotto investimenti sulle concessioni per un valore di ca. € 910 milioni. Se si riferisce il dato alla partenza dell’attività sino alla stessa data del 2013, il dato sale a € 1.640 milioni.  Tutti questi dati sono certificati dalle AP italiane. A questo numero, già piuttosto importante, si deve aggiungere la quota di investimenti prodotta dalle imprese esterne a Assiterminal.

Il valore delle merci movimentato ogni anno dalle imprese portuali assomma a ca. € 230 miliardi, realizzando un contributo al Prodotto Interno Lordo che arriva a € 5.7 miliardi.

Gli addetti diretti delle imprese portuali italiane autorizzate assommano a circa 10.000, quelli delle sole aziende Assiterminal  sono invece 6200.

Il totale degli addetti impiegati dagli art 17 nell’ambito dello svolgimento di operatività portuale, i soggetti fornitori di lavoro temporaneo portuale, assomma a 2424 unità (fonte ministeriale). Giova segnalare che quasi il 50% di essi è impiegato nei solo porti di Savona (149) e Genova (957).

Il CCNL di categoria, che ha unificato 13 contratti preesistenti nel 2000, oggi è applicato dal 95% delle imprese portuali aderenti a Assiterminal e induce un fenomeno di contrattazione decentrata straordinariamente esteso e qualificato, che incide in modo significativo sui salari dei lavoratori portuali, portando fino al 35% la retribuzione aggiuntiva ai minimi attribuibile a salari variabili e alla flessibilizzazione dell’orario


 

Provo a trarre una valutazione dai numeri che ho elencato.

Parto da un concetto: gli investimenti sono connessi allo sviluppo, tecnologico e produttivo e, normalmente, modificano la situazione preesistente.

Investire significa, infatti, ammodernare o cambiare gli strumenti di lavoro, significa implementare la informatizzazione dei processi produttivi e comunicativi interni, ad esempio.

Normalmente quindi gli investimenti inducono esigenze di formazione e aggiornamento per il personale, le risorse umane, nell’azienda che li promuove.

Lo stesso CCNL di settore, come altri, impone obblighi formativi sia connessi alle materie “obbligatorie” (sicurezza in primis), sia alle evoluzioni organizzative o alla gestione dei processi di crescita delle carriere.

Quindi ne risulta naturale che la funzione formativa non possa prescindere dal protagonismo delle imprese, sia nell’esercizio che nella gestione.

A Savona, ad esempio, questo ha significato, negli anni scorsi, un significativo coinvolgimento della Culp da parte delle imprese principali e mi risulta sia stato possibile “addirittura” organizzare in talune situazioni aule formative in cui siedevano sia lavoratori dell’impresa che soci della Compagnia.


Un processo positivo, che spinge ad una migliore integrazione tra chi fa, sulla banchina, lo stesso lavoro, pur con ruoli e posizioni organizzative diverse.

Questo processo, a Genova, pur in una crescita nella relazione tra Culmv e imprese, non è mai nemmeno iniziato.

A me pare invece che sia questa la strada da percorrere, dopo tanti anni.

A me pare che l’obiettivo comune che dovremmo perseguire sia quello di abbassare, fino ad abbattere, i muri che ancora esistono tra i lavoratori, i soci delle compagnie e quelli dei terminal.

L’articolo che ho scritto nell’ultimo numero ha provocato delle reazioni, positive da alcuni, negative da altri. In particolare c’è chi si è stupito, conoscendo il mio ruolo e conoscendomi personalmente per aver frequentato in tanti anni gli stessi tavoli, per la posizione che ho espresso.


Era il mio scopo.

Non può restare sottotraccia una discussione come quella che porterà all’annunciato convegno di Genova dell’inizio di Dicembre, così come non possono essere derubricate come semplici opinioni le posizioni espresse da Mariani e Sommariva, Presidente e Segretario della AP Bari.

Non si può continuare a sentire che il modello giusto per la organizzazione portuale sia quello di Genova, sic e simpliciter, e che quindi quel modello deve essere esportato ad esempio, a Savona, dove invece si è lavorato con intelligenza per soddisfare tutte le opportunità che la legge 84 offre agli operatori portuali.

Questo non significa non rispettare la storia e la funzione di quella straordinaria vicenda che è rappresentata dalla Compagnia Portuale di Genova.

Anzi. Io sono convinto che una difesa piatta di quella storia sia il peggior insulto che ad essa si possa fare, come credo che lo pensino, non da oggi, gli attuali dirigenti della Compagnia, che hanno contribuito a condividere in questi ultimi anni cambiamenti profondi della struttura produttiva portuale genovese, che oggi sta producendo risultati importanti.

La fase della riforma della 84/94 deve trovare su questo tema così importante lo spazio che merita. Stiamo parlando di qualcosa che inerisce profondamente l’identità del “luogo porto”, non ha solo una valenza economica e produttiva.

Io vorrei che questa discussione resistesse alla tentazione di risolvere solo problemi economici, di equilibrio del sistema, che pure ci sono, ma partisse da una realtà nuova e positiva che si è determinata e che chiede non il rafforzamento di antiche identità, ma integrazione e governo generale dei processi.


Francesco Mariani e Mario Sommariva

Non dobbiamo provare a copiare modelli che o sono molto diversi e agiscono in un contesto non paragonabile (ad esempio l’esperienza del pool di mano d’opera di Anversa) o sono oggi posti in crisi dalla legislazione europea in tema di concorrenza (lo stesso pool di Anversa, ma anche la compagnia di Barcellona).

Lo schema della legge 84/94, che distingue e protegge molto diversamente chi si fa carico della maggior quota di flessibilità insita nel lavoro portuale, come gli artt 17 e chi invece deve assumersi totalmente il rischio di impresa, ritengo sia da conservare.

Questa materia, tra l’altro, è quella che più di ogni altra vede nello schema della legge un ruolo non solo di concessore e controllante, ma di protagonista, da parte delle Autorità Portuali.  Che poi le stesse lo esercitino è affare diverso. C’è quindi già nello schema della legge una funzione regolatrice del mercato che il pubblico deve esercitare. Su questa strada si deve proseguire, precisando le funzioni, rendendo non possibili interpretazioni contrastanti delle stesse norme da porto a porto, sostenendo i processi formativi degli art 17 sia con un coinvolgimento delle imprese che promuovono la formazione resa necessaria dagli investimenti, sia attraverso la conferma strutturale, come fu per l’IMA, di risorse pubbliche per questi soggetti per finanziare piani annuali di formazione.

Certo tutto questo sarebbe ulteriormente favorito se si attivasse anche una osmosi nei processi occupazionali tra le imprese e i fornitori di lavoro.

Spesso ciò non è possibile, perché si scontra con i muri delle identità dei soggetti.

Io credo che un lavoro così, con una così forte vocazione riformista, saprebbe “unificare i produttori” più di cento contratti o mille mediazioni.

Luca Becce

     

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