Pollaio

POLLAIO

Capita che mi chiedano se possiedo animali. Rispondo di si: cinque galline e un gallo. Chi mi ha rivolto la domanda a questo punto ride, prende le mie parole per uno scherzo. Rilancia: “No, dai, a parte gli scherzi, hai animali?

POLLAIO

Capita che mi chiedano se possiedo animali. Rispondo di si: cinque galline e un gallo. Chi mi ha rivolto la domanda a questo punto ride, prende le mie parole per uno scherzo. Rilancia: “No, dai, a parte gli scherzi, hai animali?”.

Non so perché, ma in questo tempo e in questo spazio si possono avere solo cani e gatti, tutt’al più criceti, uccellini, pesci rossi. Tutte bestie che vengono tenute in casa e che fanno onorevolmente parte della famiglia.

Gli animali detenuti per motivi pratici (alimentazione o lavoro) hanno ormai assunto un aspetto, un’aura poco degna. Molti amanti degli animali sostengono più o meno apertamente: “Guarda questo sfruttatore! Ma non si vergogna! Ridurre così delle povere bestie! Ucciderle magari, mangiarle pure! Ma come si fa?!”.


Premessa: le mie, di bestie, moriranno di vecchiaia. E io me ne vergogno un po’. Fin da bambino ho visto allevare e uccidere galline, conigli e maiali. Ed ho sempre assistito stupito e curioso alla loro preparazione e ripulitura. Ho sempre apprezzato le ammonizioni paterne: gli animali non devono soffrire. Nel mondo contadino è accettata la morte come evento naturale. Al massimo anticipato dalle esigenze di famiglia. Vorrei dire anche che in quel mondo la morte era presenza assidua e quotidiana, tanto per gli animali che per gli umani. Si moriva in casa (salvo incidenti) alla presenza, al cospetto di tutta la famiglia, grandi e piccini. C’erano rituali da ripetere ad ogni decesso. Nulla era demandato ad altri esterni alla famiglia: veglia, composizione, sepoltura. La consuetudine della morte era tale che darla ad un animale era un evento ordinario, quotidiano. Oggi abbiamo perso confidenza con la morte, e spesso ci si scandalizza per la morte di un animale: ammettiamo l’animale morto come prodotto, in un banco frigo. Ammettiamo guerre e miserie varie. Ma detestiamo aspramente un uomo che tiri il collo a una gallina, uccida e prepari un coniglio.

Quel che (generalmente) non si accettava un tempo era la sofferenza dell’animale. Per questo anche uccidere un pollo o un coniglio, per cibarsene, era un lavoro che andava fatto bene, senza sofferenza e senza esitazione. La conclusione più corretta sarà stata in cucina, dove il vero peccato, il vero delitto sarebbe stato cucinare male o sprecare la carne allevata con tanta dedizione. Quasi come rendere inutile il sacrificio dell’animale che muore per sfamarci e farci vivere.

Ma passando da una dimensione moraleggiante ad una più terrena, il mio pollaio si trova vicino al mio orto, in un terreno condiviso tra alcuni amici, dove coltiviamo e alleviamo qualche animaletto.

Possedere delle galline, oltre a godere di poche uova fresche, dà la possibilità di osservare questi pennuti da vicino. Pare un animale stupido, la gallina. Ottuso per lo meno. Nel suo vagare inconcludente e nel suo sguardo fisso non ci troviamo niente di simpatico, di umano, come ci è possibile trovare in quasi tutti i mammiferi. Eppure, a ben guardarle, anche loro vivono trascinate da passione, curiosità e paura. Sanno odiare, diresti: basta vedere le “vecchie” quando scoprono delle nuove galline appena arrivate. Si accaniscono a dure beccate sulla testa delle novelline, forse per far capire chi comanda, chi ha diritto e anzianità e detiene il potere nel pollaio. Il gallo è un vero galantuomo: se scopre un vermicello, una briciola, la stringe tra gli estremi del becco, a mezz’aria, ribadendo un suo caratteristico borbottio da richiamo, a beneficio del suo harem.

Una delle mie galline, purtroppo sparita per causa di una qualche volpe, era più piccola delle altre, ma aveva trovato con la velocità, il modo per emendare alla carenza dimensionale.


Quando entravo nel pollaio per versare gli avanzi della mia tavola le pollastre mi si facevano intorno, consapevoli del fatto che qualcosa si sarebbe mangiato. Esitavano, un po’ curiose e un po’ spaventate, ferme e silenziose. La piccola stava da parte: era stata sottomessa, doveva stare indietro, se si fosse avvicinata pure lei avrebbe preso qualche beccata. Io agitavo il sacchetto, da qualche parte qualcuna emetteva un cot-cot di preallarme. Lanciavo quindi il contenuto: bucce di frutta, briciole, avanzi di verdura cotta o cruda. Dal nulla sbucava la piccola gallina velocissima, pareva proprio un giocatore di rugby di quelli furbastri, un po’ defilati, troppo piccoli per reggere uno scontro, una mischia, ma che si fanno avanti con gran destrezza e, inattesi da tutti, rubano la palla e se ne vanno in meta rapidissimi. Così lei faceva. E per quanto possa sembrare strano, le altre galline assumevano un aria assolutamente allibita.

La volpe, una notte, è stata più svelta di lei. E non ne ho più saputo niente.

Pazienza: ne ho comprate altre. Paiono ora tutte uguali: stessa taglia, stesso colore. Nessuna di loro sa covare. Anche di questo abbiamo perso la conoscenza: non sappiamo neppure cosa significhi mettere una chioccia. E le galline comprate al mercato, nate da un’incubatrice, non sanno cosa voglia dire covare. In ogni caso, se dovessero nascere dei pulcini, non saprebbero riconoscerli, proteggerli, accompagnarli al pascolo. Sembrano cose da poco, ma fanno parte di quella cultura presa a calci fino a oggi, a vantaggio della Cultura dei dottori e delle cattedre. Eppure servono ANCHE le uova, le chiocce, i semi, l’acqua e tutto quanto compete propriamente alla vita dell’uomo.

Dicevo che le mie galline sembrano tutte uguali. Ma non sono. Almeno una ha dimostrato doti particolari: ha un’abilità dimostrata nel fuggire dal recinto. Non ho ancora capito da dove è riuscita a passare, dov’è il varco, il buco o la barriera che riesce a sorvolare. Eppure vaga, nel pomeriggio, tutta sola tra orti e altri pollai. Forse va a salutare le amiche e vicine.


L’ho scoperta una sera, quando sono andato per chiudere il pollaio per la notte. Appena fuori del cancello che dà verso l’orto vedo qualcosa che si muove. Controllo: una gallina stava venendo a passo certo verso il cancello. La riconosco e dico: “E tu che ci fai qui?” E lei, serissima, esordisce con un cot-cot molto compunto, che poi ho scoperto volesse dire: “No, niente, sono andata a salutare delle amiche. Però adesso se potessi riaprirmi il cancello che viene buio, e vorrei andare a dormire con le mie consorelle”. Oppercarità, mi son detto aprendo il cancello. Ed in effetti la signora impettita, senza perder tempo a beccuzzare in giro, si è diretta con sicumera al cancelletto del pollaio, attendendo che le aprissi il portone della sua reggia. Fatta entrare, ho assistito a una serie di gorgheggi complicati del gallo, che annunciava il rientro della vagabonda. Gorgheggi a cui hanno risposto le altre galline con un certo chiasso.

Se non perderà questo vizio, potrebbe fare pure una brutta fine. Ma fa parte del destino pure questo.

E con questa storia ho spiegato anche perché non sarà uccisa da me: dopo che una bestia diventa protagonista di una seppur minima storiella, non può diventare roba da mangiare. Forse per questo alle bestie che mangiamo non diamo mai un nome. E allora vorrà anche dire che per avere una storia e un destino bisogna avere prima di tutto un nome, ed è forse per questo che agli internati nei campi di sterminio veniva tolto il nome e tatuato un numero: perché non fossero più umani.

Alessandro Marenco

 

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