Pier Paolo Pasolini, il grande artista di cui quest’anno si è celebrato il centenario della nascita
Poeta, scrittore, autore, regista, uomo controverso e fine conoscitore della realtà, Pasolini alternò la lucida critica del presente a un rimpianto personale di luoghi e condizioni utopiche.
«Dobbiamo conoscere e amare il nostro passato, contro la ferocia speculativa del nuovo capitalismo, che non ama nulla, non rispetta nulla, non conosce nulla». Così il 27 settembre 1962 si esprimeva sulle pagine di Vie nuove Pier Paolo Pasolini, rispondendo a un lettore che l’aveva invitato a dire la sua circa la questione dell’insegnamento del latino nelle scuole medie. All’interno di un discorso più ampio, volto a riscattare il latino e il suo studio, il critico, regista, poeta e romanziere lasciò una testimonianza del suo pensiero sulla storia e sul presente. Oltre a ciò, rivendicò ancora una volta il ruolo fondamentale del critico che, dismesse le vesti di giullare della massa, doveva ergersi quale provocatore, “corsaro”, spesso scomodo, spesso osteggiato, sempre inviso ai potenti.
Se durante la sua vita Pier Paolo Pasolini irritò l’opinione pubblica e turbò molti con le sue prospettive eccentriche e anticonformiste, tanto da andare incontro a trentatré processi, dopo la sua violenta morte si trasformò nel mito del moderno martire laico, incarnando l’ideale del pensatore libero.
Per tale motivo nell’anno del centenario dalla nascita, avvenuta a Bologna il 5 marzo 1922, sono molteplici le iniziative e i libri per ricordarne la figura.
La sua produzione che riguarda la storia e il mito, si intrecciano indissolubilmente alla sua esistenza e al suo percorso biografico, nato a Bologna cent’anni fa, Pasolini era figlio dell’ufficiale di fanteria Carlo Alberto Pasolini e di Susanna Colussi, figura da cui non si sarebbe mai allontanato e verso la quale avrebbe professato un amore e una dolcezza infinite.
Gli anni dell’infanzia sono un susseguirsi di spostamenti a causa del lavoro del padre, con un perno fisso: il Friuli di Casarsa, paese di origine della madre, dove la famiglia si sarebbe trasferita nel 1928. Per Pasolini Casarsa e il Friuli furono significativi: negli anni avrebbero assunto la dimensione di un mondo mitico, edenico, segnato da un carattere magico e da un’autenticità arcaica che avrebbero risvegliato in lui la vocazione artistica e la riflessione sui cambiamenti della contemporaneità. Il Friuli era destinato a essere il primo di alcuni luoghi del mito e della storia, laddove il mito è una condizione atemporale, vagheggiata, e la storia l’evoluzione di un’umanità che dalla purezza delle origini si spinge ai compromessi, alle meschinità e alle viltà del presente. Una storia sublimata e rimpianta, quella dei contadini e dei poveri, che ancora non avevano subito l’omologazione di massa voluta dall’economia capitalistica.
Benché amato, il Friuli fu anche il luogo di un primo scandalo quando, dopo gli studi a Bologna e le vicende dolorose della guerra, un Pasolini docente si ritrovò al centro di un processo per rapporti di masturbazione con minori. Nel 1950 si rifugiò a Roma con la madre, cercando lavori umili. Provò a inserirsi nello scintillante mondo capitolino come comparsa e, grazie ad amicizie come quella del poeta Sandro Penna, conobbe a poco a poco la vita diurna e notturna di Roma. Soprattutto conobbe le borgate sottoproletarie, le periferie del dopoguerra minate da fame, delinquenza e miseria, che avrebbe poi immortalato in romanzi come Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), e in film quali Accattone (1961). Ancora una volta Pasolini rimase affascinato dalla verità semplice dei giovani di periferia, da quelle realtà non corrotte, in cui le passioni e i contrasti esplodevano in modo primitivo e violento. Pasolini le percorse, le indagò, ne parlò, portò l’attenzione sui conflitti e sui problemi. Descrisse la prostituzione, le vite prive di futuro, si calò in contesti a lui lontani per riscoprire quanto di vero e mitico potessero ancora esprimere e raccontare.
Man mano la nostalgia iniziò a convivere con l’aspra critica del presente. Nei romanzi, nei film, negli articoli pubblicati su riviste come il Corriere della Sera, Vie nuove, Tempo, Pasolini non risparmiò nessuno. E in particolar modo non risparmiò la deriva contemporanea dei valori. Se in una prima fase aveva cercato di lodare le sacche di marginalità delle culture basse e periferiche, in seguito cominciò a dirigersi contro la cultura di massa, contro la politica, contro l’economia che mirava a uniformare, a rendere schiavi del consumo e dei mass media. Erano gli anni del boom economico, del benessere, della cosiddetta “mutazione antropologica” che, secondo l’artista, conduceva alla morte delle differenze culturali. L’Italia avrebbe patito il “nuovo fascismo” dei bisogni indotti, del conformismo, dell’alienazione. Il piccolo e sicuro nucleo famigliare, come ricordò nelle opere e negli interventi, tra cui una profonda intervista del 1974, era stato spazzato via dalla nuova era industriale e borghese, che avrebbe voluto buoni consumatori, e non più buoni figli.
Parallelamente Pasolini cercò altrove quell’autenticità mitica dei contadini e delle borgate: il cosiddetto Terzo Mondo, l’Africa, l’Oriente e il mito greco.
Nel brullo Marocco girò una rilettura personale di Edipo con il film Edipo re (1967), in Cappadocia e in Siria ambientò invece parte della pellicola Medea (1969), con una monumentale Maria Callas come protagonista. Nella Grecia dei miti avrebbe cercato le pulsioni più antiche, genuine, una nuova tradizione, non razionale e apollinea, bensì selvaggia, contraddittoria e irrazionale.
Pasolini continuò a muoversi tra passato e presente, tra mito e storia, con un occhio sempre alla contemporaneità, alle lotte del ’68, allo stragismo, ai rivolgimenti politici, antropologici e sociali. Fu profeta e lucido osservatore, instancabile indagatore della realtà, fino agli ultimi istanti di vita, quando venne massacrato all’idroscalo di Ostia nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975.
Molte teorie si susseguirono sulla sua fine: alcune avrebbero creduto nella confessione, più volte cambiata, di Pino Pelosi, all’epoca diciassettenne adescato da Pasolini, altre avrebbero abbracciato coinvolgimenti complessi, della mafia, della criminalità organizzata, dei neofascisti e dei poteri occulti. Alla base vi sarebbe l’ultimo romanzo, uscito postumo, Petrolio, in cui un capitolo, poi espunto, avrebbe riguardato la misteriosa fine di Enrico Mattei, presidente dell’ENI, nonché logge massoniche e stragi di stato. Quell’«Io so» proferito da Pasolini è destinato a rimanere lettera morta.
O forse la verità fu in un furto di alcune bobine dai magazzini di Cinecittà, tra le quali alcune del suo ultimo e controverso film “Salò e le 120 giornate di Sodoma”, che subì la forte censura del tempo, interrogazioni parlamentari, denunce per oltraggio al pubblico pudore, denunce per oltraggio alla pubblica decenza e per vilipendio religioso.
E secondo recenti indiscrezioni, lui forse quella notte ad Ostia alla ricerca proprio di recuperare quelle bobine, fu ingannato e messo in un tranello, cercò di reagire aggredito da più persone, le quali fecero scempio del suo corpo.
Ad oggi restano le pagine profonde, ironiche, dissacranti, sull’Italia di quegli anni, sul mondo, sul mito e sulla storia, molte furono le contraddizioni e le verità del pensiero pasoliniano, molti gli spunti di riflessione che meritano ancora di essere indagati e approfonditi.
Vale allora forse la pena lasciare la parola a Pasolini stesso, che in una vivace polemica con Italo Calvino, accolta sul quotidiano Paese Sera nel 1974, riassunse in questo modo la sua posizione su passato mitico, mito storico e attualità:
“È questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa, che io rimpiango […] Gli uomini di questo universo non vivevano un’età dell’oro, come non erano coinvolti, se non formalmente, con l’Italietta […] Erano consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita (tanto per essere estremamente elementari, e concludere con questo argomento).

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Che io rimpianga o non rimpianga questo universo contadino, resta comunque affar mio. Ciò non mi impedisce affatto di esercitare sul mondo attuale così com’è la mia critica: anzi, tanto più lucidamente quanto più ne sono staccato, e quanto più accetto solo stoicamente di viverci.
Ho detto, e lo ripeto, che l’acculturazione del Centro consumistico ha distrutto le varie culture del Terzo Mondo (parlo ancora su scala mondiale, e mi riferisco dunque appunto anche alle culture del Terzo Mondo, cui le culture contadine italiane sono profondamente analoghe): il modello culturale offerto agli italiani (e a tutti gli uomini del globo, del resto) è unico. La conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell’esistenziale: e quindi nel corpo e nel comportamento. È qui che si vivono i valori, non ancora espressi, della nuova cultura della civiltà dei consumi, cioè del nuovo e del più repressivo totalitarismo che si sia mai visto.”
Per me le sue analisi, le sue parole ed i suoi scritti, le sue opere, i suoi film, restano per sempre come un esempio di alto valore descrittivo di un sentimento e di un’epoca storica, quella italiana dal dopoguerra agli anni 70, che ha segnato per sempre questo paese.
In chiusura ho scelto la trascrizione dell’orazione di Moravia ai funerali di Pasolini, che pronunciò il 5 novembre ai funerali ufficiali dell’artista a Roma.
Un discorso accorato che, anche nella commozione del momento, riuscì a sintetizzare con lucidità il significato profondo dell’opera pasoliniana e a rimarcare quanto l’Italia avesse perso con la morte di un autore come Pasolini, geniale, irripetibile, dalle tante sfaccettature coagulate intorno al motivo portante dell’amore per i poveri e per il mondo popolare. :
«Poi abbiamo perduto anche il simile. Cosa intendo per simile: intendo che lui ha fatto delle cose, si è allineato nella nostra cultura, accanto ai nostri maggiori scrittori, ai nostri maggiori registi. In questo era simile, cioè era un elemento prezioso di qualsiasi società. Qualsiasi società sarebbe stata contenta di avere Pasolini tra le sue file. Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo (applausi). Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta. Il poeta dovrebbe esser sacro.
Poi abbiamo perduto anche un romanziere. Il romanziere delle borgate, il romanziere dei ragazzi di vita, della vita violenta. Un romanziere che aveva scritto due romanzi anch’essi esemplari, nei quali, accanto a un’osservazione molto realistica, c’erano delle soluzioni linguistiche, delle soluzioni, diciamo così, tra il dialetto e la lingua italiana che erano anch’esse stranamente nuove.
Poi abbiamo perso un regista che tutti conoscono, no? Pasolini fu la lezione dei giapponesi, fu la lezione del cinema migliore europeo. Ha fatto poi una serie di film alcuni dei quali sono così ispirati a quel suo realismo che io chiamo romanico, cioè un realismo arcaico, un realismo gentile e al tempo stesso misterioso. Altri ispirati ai miti, il mito di Edipo per esempio. Poi ancora al grande suo mito, il mito del sottoproletariato, il quale era portatore, secondo Pasolini, e questo l’ha spiegato in tutti i suoi film e i suoi romanzi, era portatore di una umiltà che potrebbe riportare a una palingenesi del mondo.
Questo mito lui l’ha illustrato anche per esempio nell’ultimo film, che si chiama Il fiore delle Mille e una notte. Lì si vede come questo schema del sottoproletariato, questo schema dell’umiltà dei poveri, Pasolini l’aveva esteso in fondo a tutto il Terzo Mondo e alla cultura del Terzo Mondo. Infine, abbiamo perduto un saggista. Vorrei dire due parole particolari su questo saggista. Ora il saggista era anche quello una nuova attività, e a cosa corrispondeva questa nuova attività? Corrispondeva al suo interesse civico e qui si viene a un altro aspetto di Pasolini. Benché fosse uno scrittore con dei fermenti decadentistici, benché fosse estremamente raffinato e manieristico, tuttavia aveva un’attenzione per i problemi sociali del suo paese, per lo sviluppo di questo paese. Un’attenzione diciamolo pure patriottica che pochi hanno avuto. Tutto questo l’Italia l’ha perduto, ha perduto un uomo prezioso che era nel fiore degli anni. Ora io dico: quest’immagine che mi perseguita, di Pasolini che fugge a piedi, è inseguito da qualche cosa che non ha volto e che è quello che l’ha ucciso, è un’immagine emblematica di questo Paese. Cioè un’immagine che deve spingerci a migliorare questo Paese come Pasolini stesso avrebbe voluto (applausi)».
Tratto da Storica Online
Paolo Bongiovanni
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