Perdoniamo il refuso ma non l’incompetenza

Perdoniamo il refuso ma non l’incompetenza
Ma la sinistra vede ora nella maggioranza gialloverde quella
che è stata per decenni la sua cifra

Perdoniamo il refuso ma non l’incompetenza
Ma la sinistra vede ora nella maggioranza gialloverde quella 
che è stata per decenni la sua cifra

 Se non esistesse il refuso un’intera categoria di professionisti impegnati nell’editing e nella correzione di bozze dovrebbero cercarsi un’altra fonte di reddito. Il refuso è di per sé un errore materiale nella composizione delle lettere e rimanda all’antica arte tipografica. Poi è passato a significare qualunque errore in un testo scritto, forse per scaricare sulla macchina la responsabilità dell’autore. D’altronde, se è vero che la tastiera di un computer, proprio perché consente ripensamenti, correzioni, cancellazioni e taglia e incolla è uno strumento potente per chi scrive, è anche vero che il correttore automatico può fare dei brutti scherzi e che la vicinanza dei tasti produce più errori di quelli che si facevano currenti calamo con una errori di concetto, di grammatica e di ortografia.


Mi brucia ancora, a distanza di venticinque anni, l’aver ringiovanito di un paio d’anni il dottor Freud in una mia Introduzione alla psicologia, per non dire dello sgarbo che ho fatto a Francesco De Sanctis, proprio su questi Trucioli, cambiandogli il nome in Giuseppe. Scrivendo di getto succede questo ed altro. Il celebre McLuhan invece di riconoscere il refuso nel titolo del suo il “The medium is the message” lasciò che restasse “massage” con una umoristica giustificazione a posteriori. Ma soltanto chi non scrive è al riparo dall’errore, sempre in agguato: lapsus calami, di battitura, svista, e, vivaddio, scivolone di concetto, come quello segnalatomi sulla copertina di un volumetto Bur dove campeggia una bussola con ovest e est in posizioni invertite. 

Quindi non impiccherei mai il ministro della pubblica istruzione a quell’«un’incredibile esempio» (rivolto allo sfortunato ragazzo che si è preso una pallottola destinata a chissà chi) che l’ha reso ridicolo sulla rete. Twittando in continuazione anche Trump scivola spesso. Però impiccherei chi a quella funzione l’ha eletto, come impiccherei chi prima ci aveva piazzato una sindacalista senza nemmeno un diploma o un’avvocaticchia mancata che per superare l’esame da procuratore aveva dovuto spostarsi al sud come i maturandi  somari di mezzo secolo fa. Una brutta pagina per la Lega e per il governo gialloverde: all’una e all’altro non è ancora ben chiaro il ruolo strategico della formazione: se ne avessero avuto consapevolezza si sarebbero adoperati per chiedere al fior fiore della cultura accademica italiana (perché, nonostante il diffuso degrado, qualcuno buono, se si cerca, si trova) di assumersene l’onere, senza badare alle appartenenze politiche. 


Non impiccherei il ministro a quell’apostrofo indebito ma mi lascia semmai più perplesso la scarsa dimestichezza col congiuntivo e, più in generale, con la struttura morfosintattica della nostra lingua di cui dà prova quando parla, tanto più che la parola è molto più della scrittura espressione diretta del pensiero e più immediatamente fornisce la caratura culturale e intellettiva di una persona (per esempio di quel giornalista Rai per il quale Tav  è “fuori del tempo”, è un acronico, non è una banale sigla, un semplice acronimo).

D’altro canto il ministro, e con lui altri suoi colleghi, sembrano fatti apposta per accreditare opinionisti e lacchè di regime (il regime cattodem duro a morire, appena scalfito, finora, dal governo del cambiamento), che all’unisono col defunto centrodestra recitano il nuovo mantra dell’opposizione: gli incompetenti al potere porteranno il Paese alla rovina. In realtà  se nella maggioranza ci sono, e ce ne sono, degli incompetenti, degli incapaci, degli sprovveduti è  un, forse inevitabile,  residuo di continuità nella discontinuità segnata dal voto dello scorso marzo. L’incompetenza, l’incapacità (un po’ meno la sprovvedutezza, che mal si addice ad una turba di scafati arrivisti), non dico la corruzione, sono state la regola nella gestione della cosa pubblica quanto meno dal crollo della cosiddetta prima repubblica.  Anoetocrazia, l’avevo chiamata in un mio pamphlet, che già si era affacciata minacciosamente all’indomani della tragedia della guerra, quando dalle montagne del nord scese di tutto e il sud era già caduto nelle mani della malavita. 


Ma se il ministro con il suo imbarazzante curriculum, più da grimpeur che da uomo di cultura, e la totale inconsistenza della sua gestione della scuola rappresenta una sorta di fil rouge col passato e un oggettivo ostacolo sulla via del cambiamento – e prima questo nodo viene al pettine meglio sarà per il Paese, per la scuola e per la credibilità del governo -, seguendo il grande Pascal  resto dell’idea che su questo governo si possa e si debba scommettere perché  questo governo ha in sé, nelle ragioni della sua nascita e della sua tenuta, la linfa vitale che mancava al mortifero regime della sinistra e dei suoi complici di centrodestra. La voglia di cambiare, l’attenzione per i bisogni reali dei cittadini, l’atteggiamento di ascolto che è completamente mancato a quel regime e soprattutto l’assenza di legami organici con le lobby che finora hanno spadroneggiato nel Paese sono una garanzia e una condizione per fare emergere i migliori e liberarsi della zavorra.  Col tempo questa maggioranza non solo è destinata a diventare più omogenea e a riconoscersi intorno ad una forte leadership ma farà emergere dal suo interno quelle competenze di cui ora si avverte la mancanza. E non intendo solo competenze tecniche o professionali ma anche e soprattutto politiche, nel senso nobile del termine, quelle che nell’Alcibiade il Socrate platonico identifica con la virtù: la conoscenza e la pratica del Bene, che è spirito di servizio e amore per la Patria.  È una scommessa che non si può perdere, perché se si perde l’Italia è spacciata: in questo caso l’ottimismo non è un’opzione ma una scelta obbligata. 

 Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione

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