Perchè non si deve temere la morte (Terza parte)

PERCHE’ NON SI DEVE TEMERE LA MORTE 

Terza parte

PERCHE’ NON SI DEVE TEMERE LA MORTE 
Terza parte
 

 PRIMA PARTE    SECONDA PARTE

 Se l’identità comporta necessariamente la differenza e la differenza comporta necessariamente il conflitto, il superamento di questa conflittualità non può che passare attraverso la reductio ad unum della molteplice varietà degli enti che ci appaiono divisi, separati e plurali. “In base alla sostituzione tendenziale – scrive Girard – della separazione con l’unione, di cui sopra si è detto, si potrebbe quindi pensare a una mistica quasi sottratta alla drammatica evenienza di quella violenza inconsapevole, concorrente potentissima alle dinamiche storiche di guerre e massacri, che pesa a mio avviso sulle grandi religioni soprattutto monoteistiche”. 


 La tesi ‘monoteismo uguale guerra’ è sostenuta anche da James Hillman in particolare nel saggio Un terribile amore per la guerra (Adelphi, 2004); a conferma si vedano i libri cosiddetti storici dell’Antico Testamento, dove la violenza contro i nemici di Israele è tutt’altro che inconsapevole ma anzi benedetta dal “Signore degli eserciti”. Nel libro di Giosué, ad esempio, leggiamo delle vittorie degli Israeliti contro i Cananei e del trattamento riservato ai loro re, cinque dei quali erano riusciti a salvarsi dallo sterminio rifugiandosi in una grotta. Ebbene, una volta scoperti, Giosuè prima fece ostruire con grosse pietre l’entrata della grotta in modo tale che i re sconfitti non potessero più fuggire, poi, dopo aver fatto inseguire  e uccidere  i nemici ancora in armi  e dopo che “i superstiti furono fuggiti e rifugiati nelle fortezze, e tutto il popolo ritornò all’accampamento,  in Makkeda, in pace”, li fece uscire non per liberarli ma per infierire ancora su di loro prima di giustiziarli: “Quando quei cinque re furono fatti uscire dinanzi a Giosuè, egli convocò tutti gli Israeliti e disse ai capi dei guerrieri che avevano marciato con lui: ‘Accostatevi e ponete i vostri piedi sul collo di questi re!’ Quelli si accostarono e posero i piedi sul loro collo. Disse loro Giosuè: ‘Non temete e non spaventatevi! Siate forti e coraggiosi, perché così farà il Signore a tutti i nemici contro cui dovrete combattere.’ Dopo di ciò, Giosuè li colpì e li uccise e li fece impiccare a cinque alberi ai quali rimasero appesi fino alla sera. All’ora del tramonto, per ordine di Giosuè, li calarono dagli alberi, li gettarono nella grotta dove si erano nascosti e posero grosse pietre all’entrata della grotta, dove sono fino a oggi” (Gs 10, 22-27).  E da dove, secondo il credo di Israele, diversamente da quello apostolico cristiano, non risorgeranno. Questo passo biblico è emblematico riguardo ai pericoli insiti in una forte fede identitaria ed esclusiva che, per affermarsi, deve eliminare il “nemico”, cioè l’altro da sé. Dunque, si potrebbe dedurre, se la salvaguardia dell’identità di fede e dell’appartenenza a una determinata confessione religiosa implica il diritto e persino il dovere (Dio lo vuole!) di  distruggere  tutte le altre,  la cosa migliore da fare non è forse  la rinuncia a identificarsi in un solo credo? A questo punto, però, Girard introduce opportunamente la distinzione tra religiosità e religioni: “la prima è per tutti, agnostici e atei compresi, mentre le seconde sono per i credenti delle singole fedi. Fedi che sono già ampiamente condizionate dai siti geografici per cui, come tanti, fin dai quindici anni mi chiedevo se, essendo nato a Berlino, non sarei stato, almeno come ipotesi di base, protestante…”.  


Possibile che il luogo in cui siamo nati e in cui viviamo determini anche le nostre credenze? Possibile che la verità sia al di qua e l’errore al di là dei Pirenei, come ironizzava Pascal? Possibile che il Dio degli ebrei sia diverso da quello dei musulmani e dei cristiani? Anzi, possibile che il Dio dei protestanti o degli ortodossi sia diverso da quello dei cattolici e, persino, che il Dio, poniamo, di Ratzinger sia diverso da quello di Bergoglio (per tacer di quello di Wojtyla)? Di fronte a queste differenti identità, Girard si pone “il problema di quanto sia possibile ridurre e, se fosse possibile, eliminare il tasso di conflitto e bellicosità, se così ci possiamo esprimere, del credo religioso, per far risplendere per quanto possibile una luce unica la quale, eliminando  o almeno attenuando le identità religiose singole – se non quelle in qualche modo ‘giocate’ proprio alle tradizioni geografiche cui sopra si faceva cenno – esprima pace piuttosto che guerra, almeno potenziale”. Una luce che esprima e illumini la via che porta alla pace era già quella indicata da Parmenide e poi da Pitagora e soprattutto, in età ellenistica, da Plotino, per il quale tutti gli enti aspirano a ritornare all’unità originaria da cui si sono temporaneamente allontanati. Sennonché questa unità originaria, (l’Uno, in greco En.  Il titolo dato da Porfirio alla raccolta degli scritti plotiniani è Enneadi , da “ennea”, cioè “nove”, perché l’opera è suddivisa in nove parti, ciascuna delle quali composta da sei capitoli) fonte di tutte le cose è indicibile e indefinibile; questo motivo dell’indicibilità dell’Uno sarà ripreso dalla “teologia negativa” di Nicola Cusano, da Marsilio Ficino, da Giordano Bruno  e dalla mistica, a cui si richiama  anche Girard, per esempio nel confronto tra un passo della “Teologia del quotidiano” (Einaudi, 2012)  di Adriana Zarri e quello  del mistico islamico medievale Rumi: “Il ‘credo come possesso’ mi sembra più evidente nel passo di Adriana Zarri che esprime ecumenismo attraverso un segno semanticamente identitario nominando il Cristo al culmine del percorso, percorso il quale, volendo essere ecumenico, dovrebbe pervenire alla sfericità che corrisponde all’annullamento identitario delle singole religioni. Il passo islamico sembrerebbe pervenirvi, anche se possiamo dubitare che, nella contingenza del mondo della vita – o nel ludibrio del vivere – vi si possa durevolmente sostare”. Ed ecco che dall’ineffabilità dell’Uno da cui tutto deriva e a cui tutto aspira a ritornare siamo ricaduti in quello che Husserl chiama Lebenswelt, mondo della vita, e Girard “ludibrio del vivere” con i suoi dualismi. i suoi contrasti, le sue antitesi, i suoi schematismi e le sue polarità: vero o falso, bene o male, bello o brutto, giusto o ingiusto, positivo o negativo, amico o nemico, identità o alterità, soggetto od oggetto, o con noi o contro di noi…


Giorgio Girad

Nel capitolo successivo a quello sull’identità, Girard introduce la distinzione tra soggetto di coscienza e soggetto rappresentativo; il soggetto definito “di coscienza” è un soggetto “formalmente operante entro un raggio d’azione contenuto e delimitato da parametri introiettati garanti di un mondo stabilmente definito nelle sue regole e nelle sue prassi”. Un mondo e un clima sociale e culturale ben esemplificato da un passo delle Lettres Persanes di Montesquieu: “Il principe imprime il proprio carattere alla corte, la corte alla città, la città alle province. L’anima del sovrano è un modello che dà forma a tutti gli altri”. In una società siffatta la vita era regolata dall’alto e l’ordine (anche del discorso) si esprimeva “come dualismo (senza incertezze: ‘o così o il suo opposto’), garante di una chiarezza molto spesso persecutoria e ‘feroce’ nella sua nettezza”. Diversamente da quello di coscienza, il soggetto rappresentativo tende “a fare dell’interpretazione del mondo la sua regola in una costante interrogazione dei segni insensati che gli si presentano, si svincola dalle ‘regole ufficiali’ che lo sviano dallo scopo…”, quale?  Seguendo il non facile discorso di Girard: “Nella posizione classica il soggetto è soggetto in quanto si rappresenta l’oggetto e trova in questa rappresentazione il proprio fondamento, espresso in termini dualistici o di esclusione dell’opposto. Il termine ‘rappresentativo’ che qui s’impiega supera invece questa posizione fondativa perché in certo modo immette nella rappresentazione anche ciò che la intralcia, o per meglio dire la problematizza secondo uno sguardo che si diparte da ‘un accorgersi’ di quanto prima era inglobato nell’abbraccio della credenza e del suo alveo protettivo”. Lo scopo del soggetto rappresentativo è dunque quello di osservare “ironicamente ciò che a tutti appare ‘prima facie’, in ‘prima battuta’, che sono le cose colte nella loro immediatezza intorno a tutti noi, cioè ‘viste e non interrogate’. Il soggetto rappresentativo è quindi epocalmente debole in quanto non più in grado di pretendere di rapportarsi a quei mondi ‘sensati’ in quanto semplici di massima ordinati appunto secondo la logica della negazione dell’opposto che sostenevano, nel mondo ‘di coscienza’, la rappresentazione dell’oggetto”. Questo “sguardo di secondo livello” del soggetto rappresentativo “tende a ‘spiazzare’ la realtà immediata rendendola meno consistente e quindi meno credibile”; è lo sguardo filosofico che allontana gli oggetti per vederli meglio e che non accetta niente come un “dato” semplicemente “tramandato” senza essere interrogato: la domanda filosofica infatti è: che cosa è questo? E anche: che cosa significa questo? E anche riconoscere i limiti che si possono spostare indefinitamente in avanti, e quelli che invece non si possono superare. Uno di questi è la morte. Interrompo qui, per il momento, la mia lettura-commento di questo importante libro di Giorgio Girard, ripromettendomi di riprenderla il più presto possibile.

 FULVIO SGUERSO

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