Pasolini, mezzo secolo dopo: l’ultimo dei maestri

Pasolini, mezzo secolo dopo: l’ultimo dei maestri

Stavolta è un anniversario importante: mezzo secolo dalla morte violenta del forse più grande tra quelli che si possono annoverare nella limitata ed esclusiva categoria dei geni artisti universali, poliedrici e memorabili.
Un po’ come Dante, un po’ come Leonardo: quei magnifici che sapevano scrivere, creare, progettare, utilizzare, ma anche spiegare, interpretare e testimoniare come nessuno mai nella storia. Forse anche come Virgilio o Mosè, ma resta il fatto che fu l’ultimo capace di insegnare qualsiasi cosa facesse e di cui parlasse. Lo faceva come il più grande dei maestri, il più preparato dei geni, il più maestoso dei filosofi.
E conquistava la folla, la gente comune, tutti coloro che potevano ascoltarlo. Non dobbiamo dimenticare che già settant’anni fa, quando iniziò a essere famoso, c’era una parte enorme della televisione, della radio, della politica, della cultura e persino del clero che vietava perfino di nominarlo, in quanto rappresentava lo scandalo, il proibito, la vergogna.

Ricordo ancora la pagina del quaderno di quarta elementare, marchiata di rosso: 10 in grammatica e 2 in contenuto, per aver scritto del giorno di vacanza trascorso con i nonni. La nonna metteva la tovaglia sul prato, la zia preparava le cose da mangiare, io giocavo con le figurine, e il nonno leggeva un libro di Pasolini.
Il voto finale fu 6, perché la media era quella. Mi fu spiegato che quello era uno “sporcaccione”, che nominarlo era peccato e leggerlo un sacrilegio.

Fu la prima volta che pensai: se avessi rotto un vetro della scuola col pallone di Marco o colpito la preside con la cerbottana di Pietro, forse avrei preso meno rimproveri.
Allo stesso tempo capii – e non avevo ancora dieci anni – che bisognava fare attenzione a esprimere le proprie idee e preferenze, anche in una scuola popolare come la mia. Così, tra il tema sul Natale o sulla natura, scelsi sempre il secondo. E capii che forse, una volta cresciuto, avrei voluto davvero leggere quel libro.

Già in prima media, nel 1976-77, lessi qualcosa, ma non ebbe più lo stesso effetto. Lui era morto: una notte d’autunno del 1975, a Roma.

Da disprezzato a santificato

Perché dico questo?
Perché, come sempre succede – e in Italia più che altrove – quando qualcuno muore diventa all’improvviso il più bravo, il più onesto, il più serio e capace. Tutti gli dedicano parole, frasi, ricordi.
Salvo poi averlo sputato fino al minuto prima del ritrovamento del suo cadavere al Lido di Ostia.

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Allora sì, che arrivarono le TV, i giornali, le scuole, le radio, tutti a celebrarlo. Persino gli insegnanti che fino a poco tempo prima vietavano di nominarlo, ora gli dedicavano la frase del giorno dopo l’appello.

Il grande attore genovese Gilberto Govi avrebbe detto: “Che faccia gigia!” — come a dire “hai proprio la faccia come il c…”, dopo averlo sempre disprezzato e ora trasformato in un mito.
Ma la vita, e anche la morte, sono così.

Pasolini, l’artista totale

Pasolini fu poeta, scrittore, regista, cronista, giornalista, filosofo, ma non attore – come molti dicono a sproposito.
Era un genio creativo che affidava le sue opere al giudizio di chi sapeva leggere, capire, interpretare, migliorare, o anche criticare.
Amava la gente comune, i posti malfamati, veri, ignoranti ma sinceri, perché lì si nutriva di vita autentica.

Il padre e la madre, durante la sua infanzia, erano figure dure, quasi minacciose. Si racconta che il padre bevesse due bottiglioni di vino al giorno giocando a carte, mentre la madre, incinta e affamata, cercava di sfamare i dieci figli.

L’uomo, il giornalista, il bersaglio

Nutrendosi di vita vera, Pasolini creò opere uniche e inimitabili, da leggere e da vedere.
I libri lasciano il segno, ma i film richiedono concentrazione: rischi di non essere pronto, come in Matrix, dove se non capisci subito resti nel buio.

Quando scrisse sul Corriere della Sera la rubrica “Il Caos”, divenne chiaro che quel ruolo di cronista era un boccone avvelenato: ormai aveva toccato nervi troppo scoperti – le logge massoniche, il potere del denaro, la politica al servizio dei potenti.
E così la sua vita fu calpestata, come il suo corpo quella notte: travolto e ripassato più volte, come a dare una lezione.

Il suo “Io so, ma non ho le prove” non è difficile da capire.
In quelle parole c’è il testamento muto di un uomo che aveva previsto tutto: l’aborto, il divorzio, gli estremismi, le bombe, la violenza, i giochi di potere.
L’Italia come un enorme tavolo di Risiko e Monopoli, giocato sulla pelle dei giovani.

Un genio incompreso e maledetto

Pasolini capì tutto prima di tutti, ma sapeva che non avrebbe potuto dire tutto.
I sabotaggi e le minacce erano già molti, e lui cercava di guadagnare tempo, come un calciatore che temporeggia.
Amava il calcio: era amico di Fabio Capello, ottimo giocatore, e spesso scendeva nei campetti di periferia con le scarpe bullonate nel sacchetto di plastica.
Giocava con i ragazzi, senza importarsi del fango o dei pantaloni sporchi.

Non era un santo, eliminiamo le ipocrisie: picchiava duro, arrivava al sodo, sfidava lo scandalo e la crudeltà.
Per questo era malvisto sia dai potenti di destra che di sinistra.
Ridicolizzava i dogmi dell’uomo forte, umiliava i simboli del potere, e molti che lo criticavano di giorno lo leggevano di nascosto di notte — come chi entra in farmacia e prima di chiedere i preservativi compra dieci scatole di aspirine.

L’inizio della fine

Pasolini era un puro, ma amava l’eccesso.
Rischiava molto, si introduceva in ambienti pericolosi, tornava a casa spesso senza auto o portafoglio.
La sua Giulietta Sprint, macchina da 200 all’ora, non era un lusso: era un mezzo per muoversi tra le borgate romane, dove poteva “nutrirsi di umanità”.

Sapeva che la fine era vicina, più veloce dei pochi momenti di felicità.
Il giudice Moro (fratello di Aldo Moro) dichiarò che quella notte Pino Pelosi non era solo: erano in quattro.
Pelosi stesso lo confermò anni dopo. Descrisse quella sera come una delle solite: un giro in macchina, cena con spaghetti al pomodoro e petto di pollo, poi l’appartarsi in auto.
E da lì, la fine.

Il colpevole, per tutti, era lui.
Nessun approfondimento, nessuna indagine vera.
Solo il commento ipocrita: “Se l’è andata a cercare”.

E così capiamo che in cinquant’anni poco è cambiato.
La stessa frase oggi la si sente dire davanti a una ragazza abusata che “aveva la gonna troppo corta”.

Se vivesse oggi

Se Pasolini vivesse oggi, nell’epoca dei social, dei link, dei video di TikTok o Instagram, sarebbe profondamente deluso.
Diceva che la vita vera è toccare una mano fredda, rovinata dal lavoro nei campi, sentire il sudore della fatica.
Il virtuale non lo avrebbe mai soddisfatto.
Perché Pasolini, fino all’ultimo, non cercava lo schermo, ma il contatto.
E quella verità, scomoda e viva, è ancora oggi la sua più grande lezione.

Alberto Bonvicini 

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