Paradossi e contraddizioni del pensiero corretto

Fra le cose che vengono rimproverate al nuovo presidente americano c’è l’aver rotto gli steccati del politicamente corretto e infranto dogmi che il pensiero unico ritiene ormai inattaccabili.

Il pensiero corretto, che poi riceve la sua consacrazione nel pensiero unico, nasce  in realtà come linguaggio corretto, un cadeau della culla della democrazia occidentale. Nelle intenzioni dei liberal americani degli anni Trenta i valori su cui poggia la democrazia sarebbero stati al riparo una volta travasati nel linguaggio:  basta la parola, come, recitava la pubblicità di un celebre lassativo.  In realtà non sono le parole a determinare gli atteggiamenti ma gli atteggiamenti a determinare la connotazione delle parole. Un concetto troppo difficile per i radical chic di ieri e di oggi. Se si vogliono cambiare i gli atteggiamenti si deve avere il coraggio di intervenire sui comportamenti, altrimenti  è solo ipocrisia e rischio di censura.  A meno che non si scenda di livello e rimanga una  questione di politesse: “questo  non si dice! è una parolaccia!”  Ma non è quello che intendono dalle parti della sinistra e della nuova destra farlocca, che ha sdoganato il turpiloquio e ne ha fatto  un tratto distintivo del pensiero unico, che rimane unico anche quando è apparentemente trasgressivo. e, a questo proposito, mi permetto di ricordare la coprolalia e il linguaggio postribolare del conduttore della Zanzara, che si guarda bene dallo sfiorare le affermazioni deliranti della Callas (l’estone che i ventisette hanno incautamente piazzato alla vicepresidenza dell’Ue, del premier polacco o del nostro Crosetto).

Il politicamente corretto non coincide affatto col moralmente corretto, con lo storicamente corretto, col giuridicamente corretto, col logicamente corretto né col grammaticalmente corretto, a sentir parlare le onorevoli piddine.  Fa scandalo ed è oggetto di riprovazione l’affermazione di Trump  secondo il quale la specie umana come tutti i mammiferi e  tutti gli altri esseri viventi forniti di un apparato riproduttivo consta di maschi e femmine. A scuola ci insegnano che esiste l’ermafroditismo, presente eccezionalmente anche nell’uomo accanto a tante altre anomalie genetiche. Ma il politicamente corretto confonde l’anatomia con la cultura e il genere con le inclinazioni sessuali e siccome le inclinazioni sessuali non sono rigidamente legate al sesso (nell’uomo come nei pinguini) né sono asservite alla funzione riproduttiva pretendono che alla molteplicità dei comportamenti sessuali corrisponda una molteplicità di generi.  Insomma il maschio deve comportarsi da maschio, come se il guerriero per eccellenza, il pelide Achille dovesse perdere la sua virilità per il legame erotico che lo univa a Patroclo o i filosofi elencati da Diogene Laerzio fossero tutti “fluidi”.

Non solo: il maschio che si sente donna non cessa per questo di essere maschio senza che ciò comporti alcun paradosso o alcuna contraddizione. Valori maschili e valori femminili sono distribuiti in misura variabile nell’uno e nell’altro genere: vi sono uomini di spiccata  sensibilità“femminile”indipendentemente dalle scelte sessuali e donne con un carattere marcatamente virile che non sono sessualmente attratte da altre donne. Insomma, se si passa dall’anatomia  alla morfologia individuale, all’educazione, alla cultura, alla percezione di sé, ai rapporti con i genitori ci si rende conto che la declinazione dell’essere maschio o femmina è estremamente variabile e non è deterministicamente connessa con l’investimento affettivo. I fanatici dell’ideologia gender – armata di punta del politicamente corretto – non sono capaci di cogliere questa variabilità e pretendono di irrigidirla nei loro schemi.

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Il politicamente corretto promette di combattere i pregiudizi culturali ma in realtà veicola il peggiore razzismo. La difesa a oltranza delle comunità di cosiddetti migranti  presuppone infatti una superiorità paternalistica  nei confronti di popoli ritenuti inferiori, immaturi, da accogliere, assimilare, integrare. Nessun rispetto per la diversità, nessuna capacità di arrestarsi di fronte al muro dell’altro. Non  siamo tutti uguali e il riconoscimento  della diversità non comporta gerarchie o valutazioni. Ho l’impressione che per nascondere il proprio darwinismo i benpensanti debbano negare la razza, che, qualunque nome le venga dato, resta un’evidenza. Un’evidenza che non è contraddetta ma confermata dal meticciato, dal continuum che in certe aree di transito porta al moltiplicarsi della varietà dei tratti somatici, come accade col continuum dei dialetti.  La realtà, in ogni campo, è complessa ma la correttezza politica non è compatibile con la complessità. La correttezza politica nega l’esistenza delle razze quando ci sono ma finisce per vederle dove non ci sono, confondendo la cultura con la razza. È quello che succede con l’antisemitismo, espressione con la quale si vuole intendere l’odio verso gli ebrei e la loro discriminazione. Non esistono semiti, e semmai esistessero comprenderebbero arabi e palestinesi. Quelli che vengono chiamati semiti sono in realtà persone di religione ebraica, rimaste nei secoli ristrette nelle loro comunità non per ragioni etniche ma per difendere il proprio patrimonio storico  e culturale, coincidente con la loro religione. E nei loro confronti si compie un duplice falso: quello di considerarli una razza e quello clamorosamente smentito dai fatti di considerarli vittime del fascismo. Storicamente sono la vittima del cristianesimo, quello romano cattolico e quello protestante,   e, con la nascita dello stato di Israele, di tutto il mondo islamico. Ma la correttezza politica non riesce a integrare questa circostanza  e assolutizza il dato terribile ma contingente del programma antiebraico della Germania nazional socialista, frutto di una somma di fattori che vanno dalla conflittualità sociale all’ odio religioso  alle ingerenze della  finanza americana. Accade così che a sinistra si farnetica di un inesistente antisemitismo di destra  fingendo di ignorare che in tutta Europa a sinistra,  col pretesto della causa palestinese, si risveglia l’odio antiebraico  che portò all’orrore della Shoah di cui tuttora gli ucraini devono ancora rendere conto.

Nella sua versione italiana il politicamente corretto si scaglia contro il patriarcato e il maschilismo dove non ce n’è traccia e finge di non vederlo dov’è radicato  e si esprime con tutta la sua virulenza.  Scambiano per patriarcato comportamenti patologici di personalità disturbate e non lo riconoscono nelle luride mani di nordafricani che si insinuano nel seno e nei genitali di ragazze evidentemente non libere di festeggiare  come i loro coetanei la notte di capodanno. Nemmeno un fiato dalle femministe in servizio permanente, pronte a sanzionare uno sguardo  (è successo anche questo, non a caso in occasione dell’insediamento di Trump)  e a condannare i rituali, peraltro sterilizzati, del corteggiamento.  Che, sterilizzati o no, si stanno ormai estinguendo: i maschietti non si voltano più, nessuno – per fortuna – fischia più quando passa una ragazza avvenente,  le formule per attaccare discorso sono cadute in disuso e chi ronza intorno alla “preda” rischia di passare per un mentecatto. In compenso gli stranieri non hanno bisogno di rituali: al massimo ricorrono alla lama del coltello. E il brutto non è solo che ciò accada e imponga il coprifuoco alle donne sole: il brutto è che non si possa dire, perché dirlo è un chiaro segnale discriminatorio.

Ma in Italia il pensiero unico politicamente corretto riesce a dare il peggio di sé adottando il disfattismo dell’estremismo anarcoide di fine Ottocento, quando l’eredità risorgimentale era considerata appannaggio della borghesia e fra i ceti popolari si covava un feroce sentimento antipatriottico. Quel sentimento, ripulito dalle scorie pauperistiche, è ora parte del sistema di valori a cui si ispira il conformista benestante, illuminato, democratico, con un piede negli States, dove studiano i suoi figli; il conformista correttissimo che  prova orrore per la Russia, è amico di Israele ma non del suo governo ed è soprattutto tanto rabbiosamente antitaliano quanto appassionatamente europeista.  Perché essere convintamente italiano, amare il proprio Paese, essere patriota è roba da fascisti e il benpensante nostrano nasce antifascista e fa dell’antifascismo la sua religione e la sua stella polare.

IL Ministro Valditara

C’è però un’occasione in cui il sentimento nazionale diventa politicamente corretto: quando nello sport si affermano atleti italiani, purché di origine camerunense, nigeriana o, faute de mieux, altoatesina. E il corollario dell’antitalianità è l’avversione per lo studio del latino, occasione di una nuova ondata di proteste contro il ministro Valditara, il meno peggio nell’accozzaglia governativa, colpevole di un timido tentativo di reintrodurlo nella scuola media. Quella scuola media ferita a morte negli anni Sessanta, sulla quale si è continuato ad infierire nei decenni successivi fino a farla diventare l’anello debole del nostro sistema formativo e che ora,per quel che posso vedere, comincia a riprendersi anche per contrasto col crollo della scuola primaria e l’afflosciamento di licei e istituti tecnici  persi nel guazzabuglio degli indirizzi.   Certo, ci volevano più coraggio e maggiore convinzione ma l’innesto di un pizzico di latino – sia pure opzionale – può essere l’inizio di un’inversione di rotta e di ritorno ad una scuola fucina di italianità nella quale, per esempio, si possa riprendere a leggere  senza paura dei sorrisetti di scherno un capolavoro assoluto come Cuore di Edmondo De Amicis.

Pierfranco Lisorini

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