Opere sacre e opere profane

OPERE SACRE E OPERE PROFANE

 

OPERE SACRE E OPERE PROFANE

Che cos’è che rende sacra un’opera d’arte? Il soggetto o lo stile?  Il  significato o il fine?  La bellezza o la devozione? L’essere oggetto di culto o la sua ”aura”? La statua o la icona di una Madonna portata in processione e una Pietà scolpita da Michelangelo non sono entrambe immagini sacre, cioè attinenti alla sfera del sentimento religioso? Chi mai, se non un folle, oserebbe profanare l’una o l’altra?

  

Ecco una prima distinzione tra sacro e profano: sacro è ciò che solo un folle, un empio, un iconoclasta potrebbe profanare e quindi profano è ciò che viola la sacralità di un luogo, di un’immagine, di un tempio (pro-fanum, significa che deve stare fuori dal tempio). Un’altra  distinzione  tra sacro e profano la troviamo  in un capolavoro di  Tiziano databile nel 1514, dipinto in occasione delle nozze tra il veneziano Nicolò Aurelio e  la padovana Laura Bagarotto, conosciuto con il titolo tardosettecentesco di  Amor sacro e Amor profano, dove due figure femminili, una vestita e l’atra nuda, significano rispettivamente la felicità breve in terra e la felicità eterna e celeste, come si deduce dal vaso colmo di gioie presso la donna vestita e dal braciere ardente, simbolo dell’amore divino, in mano alla donna nuda.  La distinzione tra sacro e profano, che ognuno dovrebbe in teoria aver sempre presente, non ha impedito nei secoli, come narrano le istorie, le profanazioni di templi, di chiese, di statue, di immagini sacre per certuni ma profane, o profanabili,  per altri , come sempre è avvenuto nel corso delle  guerre e delle rivoluzioni. Ma con questo che cosa si vuol dire? Forse che anche i concetti di sacro e di profano sono concetti relativi?  Prendiamo il  caso della Stella di David, simbolo della religione ebraica, trasformata in marchio di vergogna e di condanna dagli antisemiti; oppure delle  grandi statue del Buddha , patrimonio dell’umanità,  prese a cannonate dai Talebani in Afghanistan, o le devastazioni di Palmira in Siria da parte dei miliziani dell’Isis (per non parlare dei bombardamenti angloamericani su Bagdad e, prima ancora, su città d’arte come Venezia, Padova, Firenze,  Roma,  Monaco, Friburgo,  Berlino,  Colonia,  Dresda…). Diverso è il caso delle pro-fanazioni e pro-vocazioni di artisti che pensano (o credono) di épater le bourgeois con le loro trovate a effetto, come il  cavallo steso sul pavimento e trafitto da un palo con la scritta INRI di  Maurizio Cattelan, o la lapidazione e l’oltraggio con lancio di escrementi del dolce volto racchiuso in un ovale perfetto del Salvator Mundi – malgrado le offese sempre benedicente – di Antonello da Massina, come avviene nella discussa e discutibile piéce di Romeo Castellucci “Sul concetto di Volto nel Figlio di Dio”, che sembra studiata apposta per scatenare le prevedibili reazioni  dei bigotti e degli ambienti cattolici tradizionalisti e oltranzisti…


Ancora diverso è il caso della profanazione di celebri capolavori della storia dell’arte da parte di alcuni artisti delle avanguardie ormai storiche, che rivendicando  la libertà di intervenire con ironia – ovviamente in effigie – per esempio sulla Giocanda le mettevano i baffi e le facevano fumare la pipa o, più recentemente, sul David di Michelangelo, mascherandolo da terrorista kamikaze pronto a farsi esplodere o rappresentandolo con i capelli biondi e la pelle rosa o con un enorme e sgraziato pancione, approfittando alquanto del fatto che i grandi maestri burlati  sono impossibilitati a   reagire (almeno in questa dimensione spaziotemporale).  Non hanno invece intenzioni profanatorie, a mio giudizio, gli strati di colore, le colature,  i segni apparentemente arbitrari che il grande artista austriaco Arnulf Rainer sovrappone al volto di Cristo, che riesce nonostante tutto  a riemergere da quei grovigli e a interpellare la coscienza di chi guarda. Tutte queste opere mantengono comunque ben ferma la distinzione-separazione tra la visione (sacra) dell’artista e quella (profana) dello spettatore: l’opera è nel tempio dell’arte,  lo spettatore fuori o davanti,  come appartenessero a due mondi diversi anche se in qualche modo (ma non sempre) comunicanti.


Ora l’ultima  frontiera dell’arte d’avanguardia intende superare questo dualismo o separazione tra le opere e i “fruitori” delle medesime: chi visitasse la mostra luna park intitolata Doubt (Dubbio) allestita a Milano, all’Hangar Bicocca, fino al 31 luglio 2016,  dall’artista ludico  belga Carsten Holler, si troverebbe a passare per gallerie buie e per labirinti di luci intermittenti, potrebbe  entrare con la testa in un acquario o mettere in moto un ingranaggio che fa volare funghi velenosi, nonché sollevarsi da terra  appeso a un parapendio o farsi un giro su una giostra grazie alla quale, per mezzo di occhiali speciali,  potrà capovolgere la prospettiva consueta con cui osserva il mondo circostante e, infine, ove ne sentisse il bisogno, potrebbe riposare  la notte su uno dei due letti che l’artista a messo cortesemente a disposizione dei visitatori nottambuli presumibilmente provati da tutte quelle sensazioni straordinarie.. A questo punto qualcuno potrebbe ingenuamente chiedersi dove sia andata a finire quella che siamo abituati a chiamare arte; ma la risposta non è poi così difficile: l’arte è dentro di noi, si tratta solo di portarla alla luce.

Fulvio Sguerso

 

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