Omaggio ad Irene Dominguez

Lo scrittore Carlo Carlucci, molto amico della pittrice cilena Irene Dominguez, che ha vissuto ad Albissola e amato molto la Liguria, ci ha inviato alcuni suoi scritti per omaggiare la geniale, vulcanica e originale pittrice mancata a novembre del 2018

IRENE DOMINGUEZ

 

IRENE DOMINGUEZ

Lo scrittore Carlo Carlucci, molto amico della pittrice cilena Irene Dominguez, che ha vissuto ad Albissola e amato molto la Liguria, ci ha inviato alcuni suoi scritti per omaggiare la geniale, vulcanica e originale pittrice mancata a novembre del 2018.

 

 

Nel mio libro pubblicato in splendida traduzione in Messico, tra i racconti (primissimi anno ottanta) vi é L’esilio che rappresenta appunto la figura di Irene punto di riferimento degli esiliati cileni di allora. Il racconto se volete lo potete utilizzare anche subito non avendo perduto la freschezza originaria. 

Claire Trean assieme al suo compagno di allora e di sempre, Jacques Bertoin anche lui non più sulla terra, divenne amica di Irene all’epoca di Allende a Santiago. Claire scrittrice e già giornalista de Le Monde (scrive con una stupenda asciuttezza….) potrebbe attingere ai suoi ricordi.

Io naturalmente potrei, nel caso voi non aveste la possibilità, tradurre in italiano quanto eventualmente Claire volesse rievocare.

Vi confesso che avendo potuto rintracciare Trucioli per caso (ma il Caso non esiste!) mi è di grande conforto. Ne L’esilio, vi é tutta Irene e la sua gioia e passione di vivere, di dipingere, di cantare. La perfetta consapevolezza o se vogliamo cognizione del mondo e delle sue brutture e tristezze non poteva offuscare la prorompente vitalità e gioia di vivere di questa straordinaria donna.

 

Carlo  Carlucci

L’esilio.

Dai vetri sabbiosi, delusi, percossi da rabbiosi venti invernali si sfumava una porzione di lungo Senna che ti si consegnava.

Come sempre, non vi era amore nell’amore, ma che importa. Evviva il mio sorriso imperioso e importante.

Le mani andavano, si animavano, mai che cercassero una posizione di quiete. Come se avvertissero tutti i fruscii, o le tensioni, o le esplosioni d’ira, o i soprassalti e i soprusi del traffico.

Nel ventre della balena. Ad ogni porta chiusa alle sue spalle si sentiva piombare nel ventre della balena. Voleva urlare ‘Aprite!’. Ma era sciocco. Le porte erano lì, apposta per essere chiuse.

Il mio piccolo cuore è triste perché tu parti. Prendiamo un pò di nastro adesivo e lo riappiccichiamo fino al tuo ritorno.

Anche gli animali sporchi e ingordi come il maiale o fetidi come la iena, hanno la loro funzione ed anche il falco, l’avvoltoio, il condor, Pinochet.

Una capitale, la mia capitale, tra le nevi immacolate della Cordigliera e un oceano blù, argento, plumbeo. Una città di grigio. Eravamo comunque allegri e le notti di festa e le mattine di mal di testa e di portaceneri da vuotare e di bottiglie vuote. Come nell’adolescenza. Finché un giorno ci siamo svegliati senza più speranze, anonimi, adulti, con autoblindo e posti di blocco.

Per me ogni nottata doveva rivelarsi in qualche modo compiuta e unica nel suo farsi. Tu no. Tu preferivi essere pagato con altra moneta o percepire altri interessi. 

Al caffé io amavo mettermi nel mezzo, tu sceglievi gli angoli più appartati. Io partivo sempre per altre destinazioni, dialogavo con chiunque. Tu ti preoccupavi delle radici. 
Per questo era bello ritrovarsi. Ti portavo qualche ninnolo. Non ti raccontavo nulla perché già sapevi tutto. Poteva essere l’inizio di una mia canzone quel traffico inesausto delle mie dita tra i capelli e l’aria intorno. Tu, attento, gli occhi diritti, lasciavi che io muovessi, dessi dimensione, freno ai miei fantasmi. Senza chiedermi mai perché o dove. E questo mi piaceva. Mi sembrava che la luna sopra la tua casa non fosse più luna deserta, ma il calmo, concavo catino del tuo affetto. Di questo sorridevi. Ogni immagine che trovavo per te, dicevi, serviva ad adornare il tuo albero.

In certi soavi depositi confluisce qualcosa. Venivo sovente a trovarti con la mia gonna folklorica e una piccola borsa contenente tutto il mio avere e una chitarra per tutta la mia musica. E finalmente dove c’eri tu la verde campagna si apriva inconscia e io potevo riposare alla tua pace. Che più non esistevano disastri, né esilî, ne scommesse di centurioni sulla resistenza dei torturati.

Un solo, appassionato librarsi in volo di un uccello che dal treno diritto, univoco, divideva il cielo in due e quel fiume racchiuso dal debito filare di alberi che divideva la campagna. Lontani, ogni tanto, paesi rarefatti, senza espressione, sagomati in pietra oscura.

Ti ricordi l’ultima volta che sei partito a cavallo di una rombante, grossa moto, che a me pareva un enorme tritacarne? Mi raccontavi cose strane, che volevi dare un senso al tuo io, oppure qualcuno, non-so-chi, ti metteva i bastoni fra le ruote. Ritornasti poco dopo, rifacendo il cammino appena percorso. Ti accolse la mia risata squillante. A che valeva chiedere perché ai tuoi occhi un poco schivi. E un alacre vento di prima estate sommuoveva i pioppi del lungofiume. Eri tornato, così avresti avuto un rimorso in meno.

E non ti ricordi come lui morì oltre all’esilio e al vaporoso obnubilarsi del dolore e tutti quei cardiogrammi che erano diventati dei peggiogrammi o tetrogrammi. Ma tutto il resto di lui sorrideva senza posa e senza scomporsi e tutto di lui pretendeva il nostro sorriso e tutto di lui era per noi, mentre noi arrivavamo inconsapevoli, lo visitavamo come per portargli un gettone di presenza.

Umili. Dovevamo esserlo. Ma non quello sforzo immenso dei cristiani. E poi, umili per quelli della nostra parte voleva dire le masse. E poi, anche tra quelli della nostra parte c’erano quelli che dovevano educare le masse.

Non-si-sa-come ci siamo trovati tutti, chi più, chi meno, a rappresentare la nostra diaspora da sottosviluppo, a cantarla dovunque ci chiamassero, a presenziare a congressi indecenti, a macabre tavole rotonde ed errabonde, a festival di periferia o del centro, provinciali o nazionali. Così che dei nostri roghi e disastri se ne dovesse parlare fra i roghi di salsiccie e bistecche. Rivoluzionari enogastronomici e con gastrite.

Facciamo così: apriamo un conto in banca con tutte le nostre idee non realizzate e poi con libretto d’assegni forte fra le dita usciamo e ordiniamo quanto più ci aggrada, tutti i profumi che desideriamo, di quelle cose che non esistono se non nel nostro furore.

Ci saremmo portati molto in là con gli anni. Chissà che cosa avremmo implorato di più, per questo remoto sentire nella carne l’eco di galoppi perduti. Quel negro che osservavamo pulire il marciapiede era negro perché lo avevano inventato i bianchi con la dea ragione che aveva ragionato sempre da una parte. Ma nemmeno ragionevole ci era sembrato dire che beati erano i poveri e che di loro era il regno dei cieli.

Che il mio disamore di allora si fosse tramutato in odio? No, a che serve? 

Li vedevo un pò così, con le loro buffe teste, chi di struzzo per non vedere, chi di sagace gallina intenta a beccare tutto ciò che gli buttavano, chi di vacca timorosa e la sua brava gonna a merletti. Eravamo una famiglia numerosa; sono rimasti tutti.

Molti non resisteranno e si convertiranno e molti andranno avanti con calcoli meschini; molti taceranno azzerati. Poi ci sono gli altri, quelli che non hanno mai capito bene, ma che sapevano da che parte stare, quelli che non riuscivano mai a imparare uno slogan – era più forte di loro -, quelli che nemmeno avevano avuto casa nella loro casa.

L’attacco di certe notti così oscure. Piangevano molto sopra la nostra storia di agnelli e di lupi, di candide colombe e di vampiri. Era una bella storia a tutti gli effetti, una bella storia che piaceva a tutti gli uomini di buona volontà. Finì presto come dire ‘e tutt’a un tratto’.

Quella notte di festa del 14 luglio, in rue du Blanc Manteau. E mani, canti e schiocchi nella notte, quella notte in cui eravamo così felici di esservi. La nostra è una razza oscura e fiera dove le donne si prendono senza parlare.

C’è chi ha i soprassalti per il salire e scendere del dollaro e tu invece assonnato, aggrottato, aspetti che venga ad apparire sul cono d’alberi lei, la luna.

Prima che sia vuotata questa coppa, prima che si giunga a due dita dal fondo di quella bottiglia, prima che l’eco dei nomi pronunciati in questa stanza, prima che le traiettorie dei nostri sguardi diritti, prima che appassionata di noi la notte, prima di dirci l’addio che non ci diremo, stampiamo su questi vetri mistici e appannati, così, le nostre quattro palme in faccia all’alba. Oggi è già domani, io di te madrina e tu di me padrino, nel duello all’alba.

Ho comperato un giorno di pianti e un giorno di pensieri e ho venduto un giorno d’amore al prezzo di un giorno di tribolazioni.

Alla fermata del metro Louvre le statue archeologiche così sotterranee e magica-mente illuminate ci fecero chiedere se per caso eravamo più vivi dei morti o se già ci avevano rinchiuso in piramide e se fuori splendesse ancora qualcosa; ed era meglio essere per sempre nomadi, sempre senza riparo, sempre all’altezza del vento sulla faccia.

L’aglio, l’olio, i pomodori ben maturi e sale e prezzemolo e un pò di basilico. Vivere così la vita come tu prepari la salsa lieve e aromatica dei tuoi spaghetti. E quindi coraggio, forza quanto basta e sangue e gusto per viverla di petto senza mai dire oggi-mi-sento o i-miei-ricordi. Così non sarebbe più come il fresco sugo della tua patria, ma rimanenza, avanzo di tavola calda.

Sfruttamento, biodegradabile, sporco nell’ammollo, vi dà la carica, che più bianco non si può, intellettuale organico. Senza patria il cammino della pubblicità, un colpo qui e un colpo là.

Ed era disonore ogni disamore.

Abbiamo fatto così, rimpicciolito, resi lillipuziani i ricordi, creando gigantografie del futuro, tipo murales. Che la storia fosse maestra della vita lo avevamo imparato e dimenticato a scuola.

Che ne sarà di me? ‘Non potrà continuare a lungo’, dicevano di me, e dicevano ‘non-ha-senso-quello-che-fa’; che era insensato e pazzo. E io arrivavo nei posti già con il sentimento dell’addio addosso.

Si trattava di riuscire a darsi una mano al di là delle linee di partito, delle correnti, delle diverse idee sulla sinistra, dei partiti o gruppi di sinistra. Catapultati come eravamo dovunque. Si trattava che ciascuno doveva prendere sulle proprie spalle la croce, ma come simbolo avevamo tutti falce e martello.

A cantare, a ballare, a urlare a squarciagola, che la dittatura cadrà. Quanto volevano da noi ammassandosi attorno ai palchi come api al fiore. Volevano estrarre tutto il nostro coraggio.

L’appartamento di un senatore, sì, di un grande, è un magnate, un grande artista, un mecenate comunista, libertario; chissà, dopo Picasso è il più grande e ricco artista rivoluzionario. I saloni raccolgono la sua collezione personale (vale miliardi) di maschere africane e arte primitiva in genere. Fa piano, stasera non c’è, la sua cameriera (è una esiliata e si danno del tu da compagni) ci farà mangiare in cucina.

E gli anni ottanta? Come in quella filastrocca, la gallina canta. E gli anni novanta? Quando si staccò l’aereo e divenne altissimo, lo vidi, vidi il mio paese così stretto e lungo, lo vidi come geografia mentre già era iniziato e si affilavano gli strumenti di tortura e altro non era che terra hermosa e impareggiabile, con alberi, fiumi e monti e oceano e grigioverde militare dietro le lenti affumicate dell’eterno Giuda.

Carlo Carlucci

 

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