Note su “Felicità raggiunta, si cammina” di Eugenio Montale
Felicità raggiunta, si cammina
per te su fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s’incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t’ama.
Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le schiari, il tuo mattino
è dolce e turbatore come i nidi delle cimase.
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case.
Nonostante Montale passi per un poeta ermetico, siccome il suo ermetismo non è basato sull’analogia ma piuttosto sull’assenza di un contesto più o meno didattico che offra delle coordinate utili a decodificare la temperie e la situazione (l’occasione preferirebbe dire Montale), e siccome di questo contesto nei dieci versi della lirica neanche c’è bisogno visto che non è in questione un accadimento che funga da innesco ma si ragiona emotivamente in generale, potremmo parlare di una poesia il cui contenuto risulta tra i più immediatamente chiari della sezione “Ossi di seppia” dell’omonima raccolta.
Premesso ciò, permangono tuttavia alcuni passaggi i quali più che ermetici potremmo sospettare come vagamente ambigui, nel senso che possono forse prestarsi a più di un’interpretazione, senza tuttavia mai giungere ad uno scostamento semanticamente rilevante.
Vediamo subito che la prima strofa è una descrizione di che cosa sia raggiungere la felicità.
Una esemplare fenomenologia con cui il poeta riesce a ritrarre per mezzo di pochi efficacissimi tratti molto concreti, pur nella loro valenza metaforica, l’idea di felicità, la quale è come se gli si fosse materializzata davanti e gli avesse consentito, mettendosi in posa, di dipingerla per quel che è necessario e sufficiente a farne un quadro pienamente credibile.
E la felicità che si mostra, sùbito si scopre coinvolta in una sorta di ossimoro:”si cammina / per te su fil di lama”. Infatti se la felicità è raggiunta, come si può essere colti nell’atto di camminare, cioè nell’atto tipico dell’andare verso qualcosa? E se ci si avvicina, come si può sostenere di essere già là, di essere già felici? Tre possono essere i significati, più o meno vicini ad un approccio letterale:
1) Al fine di raggiungere la felicità, si è disposti a camminare sul filo del rasoio; in questo caso “per te” in un immaginario dialogo con la felicità, vorrebbe dire:”pur di averti”, dove il protagonista è soprattutto il soggetto, ed è lui che decide di mettersi in gioco.
2) A causa sua, si cammina sul filo del rasoio; dove la volontà è meno libera, perché andare verso la felicità è determinato più che da una scelta, da un’attrazione fatale, come per la forza di una calamita.
3) La felicità è stata raggiunta, ma manca costantemente la certezza del suo perdurare.
Resta, in tutti i casi, che non si può non percepire una “felix culpa” per cui il piano temporale del presente e del futuro si intrecciano riuscendo a rendere, proprio in virtù di questa con-fusione, lo stato emotivo del poeta, il quale tratta il participio “raggiunta” come una specie di apposizione, di indicatore di un sentimento intrinseco non compiuto nella sostanza neanche quando sarebbe compiuto per definizione.
E’ forse anche un modo per dire che la felicità piena e consolidata, se fosse, sarebbe un acquietarsi e uno scordarsi di quanto valga, e se ne perderebbe il valore, non riconoscendolo più.
La felicità è “piena” invece, e, per assurdo, si dà solo quando permane in una qualche misura il timore di perderla.
Se la prima metafora può richiamare l’intermittenza all’orizzonte buio della luce della petroliera de “La casa dei doganieri”, configurata più in termini di speranza di comprendere il mistero, ed è un richiamo interno alla sua opera, nella seconda metafora a correlativo della felicità vi è un richiamo esterno, poiché si nota un chiaro debito verso il Gozzano dell’incipit di “Invernale” dove con quel “…cri…i…i…i…icch” si connota sùbito una lirica in cui la scelta è tra l’invito della donna amata, allegoria della felicità, ad accompagnarla nelle sue evoluzioni sul lago ghiacciato, e la sopravvivenza che, messa a repentaglio in quei momenti insieme di ansia e di sfida, diviene agli occhi del poeta, simile a un momento “dolce e turbatore come i nidi delle cimase”.
Qui non si vuole rendere parallele la lama su cui bisogna tenersi in equilibrio per non perdere la felicità, e la lama che permette di danzare volteggiando sulla lastra infida del ghiaccio, graffiando con arabeschi quel gelo nell’ebbrezza dell’amore.
E tuttavia, tenendo conto che Gozzano è un autore imprescindibile per Montale, l’accostamento non dovrebbe risultare peregrino.
Anche perché in entrambe le immagini è riferita una felicità fragile, precaria, tanto da non essere toccata nel nome della prudenza (“e dunque non ti tocchi chi più t’ama”) o da essere colta solo nel cedimento ad istanti di follia (“m’abbandonai con lei nel folle accordo”).
Quello che da un simile accostamento stranamente deriva, è che Montale pensa che la prudenza preservi la felicità, mentre Gozzano ritiene che la impedisca.
Ma forse anche questo è un’apparenza, perché si intuisce che nell’ “osso” montaliano la felicità durerà poco, e che nella lirica di Gozzano addirittura vi si rinuncerà. Gli effetti sono gli stressi.
D’altra parte anche quel “Se giungi sulle anime invase / di tristezza e le schiari”, sembra essere più un rendere sereni che un rendere felici; un attenuare, non un dissolvere la notte.
Infine, a continuazione immediata di quello precedente, il verso più bello: “il tuo mattino / è dolce e turbatore come il nido delle cimase”. Ovvero, il tuo fare capolino alla mente, ha la stessa dolcezza, lo stesso piacere, assaporati dall’essere costretti ad entrare nel nuovo giorno accolti dal canto indaffarato che si fa nei nidi costruiti dagli uccelli sotto gli spioventi dei tetti.
Gli ultimi due versi non tradiscono incertezze; sono lineari chiari e definitivi.
Un bambino piange. Ha capito di aver perduto qualcosa per sempre: un cordino mal trattenuto, un buffo più forte di vento, ed ecco il barlume di felicità che cala col canto degli uccelli dai tetti, si incrocia con lo sguardo del bambino che, disperato, segue salire il suo pallone tra quei tetti volandosene via, senza più appartenergli, e senza portarlo con lui.