Note a margine degli Xenia: Xenia I, 2

Xenia I, 2

Senza occhiali né antenne,
povero insetto che ali
avevi solo nella fantasia,
una bibbia sfasciata ed anche poco
attendibile, il nero della notte,
un lampo, un tuono e poi
neppure la tempesta. Forse che
te n’eri andata così presto senza
parlare? Ma è ridicolo
pensare che tu avessi ancora labbra.

Non una continuazione o un completamento di Xenia I, 1, che anzi volendo seguire la fabula le due liriche andrebbero invertite, ma una ripresa da un angolo visuale leggermente diverso dello stesso accadimento. Meglio, dello stesso resoconto per metà realistico e per l’altra metà perfezionato dalla verità con la quale è stato immaginato.
L’insetto in questo secondo Xenion, in questa seconda lettera d’amore a Nessuno, è definito “povero”.
Ha perso, nell’esaurirsi del corpo per la malattia, anche le antenne, quelle che nel primo si davano per sottintese in chi così poco poteva servirsi degli occhi.
Le ali invece no. Non inganni l’ambiguità grammaticale dei versi: “povero insetto che ali / avevi solo nella fantasia”. Non significa che Mosca credeva di avere le ali, ma era soltanto una fantasia, una sorta di sua convinzione; significa invece che solo su quella poteva contare, solo con quella affrontare / giudicare il mondo dal suo monte Tabor interiore. Che quella era le sue ali

Il primo verso della lirica è nominale. Presuppone “Eri”.
Poi, dal secondo al settimo, gli si contrappone “avevi”.
Ma cosa aveva? : una bibbia sfasciata ( notazione solo realistica? ) presumibilmente posata sul comodino, e forse la medesima che ha visto il poeta leggere il Deuteroisaia nella lirica che precede, e che spiega come egli in realtà sia andato sub limine a cercare la moglie e a suscitarne la ricomparsa, ad evocarla tra le righe del libro che lei spesso leggeva. Per modularsi con i suoi pensieri in un illusorio tramite con l’al di là.
Ciò che lei “aveva”, riecheggia il Pascoli della triade “Il lampo” ( la terra ansante, livida, in sussulto; /… ), “Il tuono” ( E nella notte nera come il nulla, /… ) e “Il temporale” di Myricae. Il quale ultimo, però, solo per dire che manca, che a Mosca sarebbe spettato di provocare un poco di rumore, di essere tenuta presente come non si può non fare per una tempesta prima di decidersi a tirare la porta dietro sé se proprio si deve uscire di casa. Ma non è accaduto.
Ci sono state le premesse della morte, ma è come se poi non avessero avuto il tempo di prepararla, e la morte avesse agito di nascosto, a tradimento, senza dare la possibilità di un ultimo messaggio.
Poi nel poeta il balenare di un dubbio per una scelta della moglie che avrebbe potuto rappresentare per lui una ferita insanabile: “Forse che / te n’eri andata così presto senza / parlare?” ( senza dirmi qualcosa che se tu avessi avuto il tempo mi avresti detto? )
Dubbio tuttavia messo da parte, perché  il poeta conclude: “Ma è ridicolo / pensare che tu avessi ancora labbra”.
Cioè si impone il realismo della materia, della triste verità dei sensi veicolati dal corpo, senza il quale l’anima tace, e con essa le parole.
Sono i versi più definitivi di tutto il testo. Che stranamente tolgono speranza e insieme consolano: non lasciano spazio al rammarico che l’ultimo desiderio o l’ultimo macerato consiglio, intrappolati nella bocca, avrebbero potuto altrimenti essere raccolti.

Fulvio Baldoino

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